Alessio Boni su La ragazza nella nebbia: «Un mistero dall’ingranaggio complesso»

Diventato famoso più di 14 anni fa con La meglio gioventù, Alessio Boni torna ora al cinema con il thriller La ragazza nella nebbia. Tratto dall’omonimo romanzo di Donato Carrisi (qui anche regista), il film è ambientato in un paese di montagna ormai abbandonato dai turisti dove tutti gli abitanti si conoscono e dove tutti si ingannano ogni giorno fingendo una felicità e una tranquillità che è solo di facciata. Quella presunta felicità e tranquillità viene erosa la sera in cui una ragazzina scompare nel nulla, come inghiottita nella nebbia. Inevitabilmente la ricerca del colpevole – o meglio dire del mostro, un mostro che deve esser necessariamente venuto da fuori come vuole pensare la comunità – scoperchieranno verità nascoste. Ma non solo, perché quel fatto di cronaca nera attirerà il morboso e vorace voyeurismo di televisioni e giornali. E proprio i media saranno un ingranaggio fondamentale di questo mistero…

Per farci raccontare i retroscena del film, raggiungiamo Alessio Boni al telefono in un pomeriggio di fine agosto mentre l’attore si trova in aeroporto e sta aspettando di imbarcarsi su un volo diretto nello Zimbabwe: «Sto andando in Africa per una ONG bergamasca che opera lì da 30 anni: faremo un documentario che sarà portato nelle scuole e in Tv in modo da racimolare un po’ di soldi e aiutarli. Ma ora parliamo del film di Donato Carrisi».

Che cosa dobbiamo aspettarci da La ragazza nella nebbia?
«Mi trovo in una situazione un po’ difficile perché, in accordo con Donato Carrisi (autore del romanzo e regista, ndr), abbiamo deciso di non svelare tantissimo della storia, di lasciare un po’ di mistero prima dell’uscita del film. Detto questo, è veramente anomalo che uno scrittore riesca a fare un’opera prima con un budget così importante e un cast di così alto livello. E sai come ci è riuscito?»

No, dimmelo tu.
«Grazie alla sceneggiatura. È da lì che nasce tutto: se non hai una buona storia, puoi avere anche Marlon Brando ma non vai da nessuna parte. È stata questa l’arma vincente di Donato Carrisi, uno dei giallisti più venduti in Europa: la suspense è la sua materia, ne conosce il peso netto. Con le sue parole ha fatto breccia in attori del calibro di Toni Servillo e Jean Reno, artisti che hanno talmente tante proposte da accettare solo quelle in cui credono veramente; figurati che Reno ha detto sì pur avendo un ruolo minore e, da New York dove abita, è venuto a Bolzano per girare solo cinque, sei giorni».

Chiaro: essendo uno scrittore, la storia è la sua arma vincente.
«A volte prendiamo sotto gamba questo aspetto, ma la genesi di tutto quanto – al cinema come in teatro, in televisione, alla radio – è assolutamente la storia. Carrisi è un regista alla sua opera prima, non si tratta di Marco Tullio Giordana, Gianni Amelio, Bellocchio, coi quali sei tranquillo anche se non ti raccontano la sceneggiatura».

E cosa ci puoi raccontare del tuo personaggio?
«Io interpreto Loris Martini un professore di lettere, amante della poesia classica. Insegna nel liceo di Avechot, un paese tra le montagne, che poi è non-luogo che potrebbe trovarsi ovunque. Lì scompare una ragazzina e Donato Carrisi ha costruito un puzzle intorno a questo evento, un mistero con un ingranaggio complesso. Sai quante donne scompaiono all’anno?».

Non saprei…
«Tra le 150 e le 300. Se ne parla poco perché molte sono delle prostitute, delle cosiddette “poco di buono, che se la sono cercata”, si dice, i loro casi non fanno notizia. Cosa calamita invece l’attenzione? Le storie alla Yara Gambirasio, di ragazze innocenti, con genitori per bene, nessuna macchia, in un posto asettico: sono queste a riempire gli show televisivi per anni. Si punta il dito contro i media, ma i media siamo noi: del resto, quando passiamo accanto a un incidente in autostrada non rallentiamo sempre per vederne i dettagli, per capire chi è morto? Ci piace vedere e sentire queste cose, è un comportamento umano riconosciuto. Il libro e il film La ragazza nella nebbia esplorano questa dinamica: non c’è solo l’ispettore che va alla ricerca del colpevole».

Come sei stato coinvolto nel progetto?              
«È stato Donato a volermi. Quando ci siamo incontrati per la prima volta in un bar a Milano ci siamo stimati immediatamente. In quell’occasione mi ha detto: “Per me tu sei Loris Martini”. L’altro attore che aveva già in mente era Toni Servillo nel ruolo del poliziotto Vogel: “Siete voi due gli antagonisti della situazione – ha continuato – Per favore dimmi di sì”».

E tu gli hai detto sì.
«In realtà gli ho detto ero molto occupato a teatro, ma Donato ha fatto di tutto per avermi e alla fine siamo riusciti a incastrare i miei impegni sul palcoscenico con quelli della produzione cinematografica: è stato un massacro, ma sia il romanzo che la sceneggiatura erano così belli che ho detto di sì».

Per Donato Carrisi si trattava del primo film da regista. Come è andata?
«Non avendo mai fatto prima un film, poteva essere un salto nel buio; in realtà lui aveva tutto molto chiaro, aveva in testa già tutto, si era già immaginato come girare le varie scene. Praticamente, mi aveva già fatto vedere il film raccontandomelo: ascoltando le sue parole, vedevo le immagini del film. Mi sono detto che aveva il film talmente dentro di sé che non avrebbe potuto girarlo nessun altro se non lui».

E poi sul set come è andata? Non sempre si riesce a tradurre in pratica le immagini e le idee che si hanno in testa.
«In questo caso è andata esattamente come Donato se l’era immaginata e me l’aveva raccontata al bar: non è cambiato nulla sul set. Lui sapeva esattamente come e cosa girare e alla fine la trasposizione in fotogrammi è avvenuta proprio in modo naturale».

Il lavoro del regista è molto diverso da quello dello scrittore, tanto quest’ultimo è individuale, tanto il primo è collettivo…
«Quando Ligabue ha raccontato a Domenico Procacci della Fandango quella bellissima storia di Radio Freccia, lui gli ha detto: “Ok lo facciamo, ma a patto che lo dirigi tu”. Ne è venuto fuori un film strepitoso, e l’ha fatto un cantante. Questo per dire che quando senti una storia talmente tua, ce l’hai talmente dentro, non puoi che girarla tu: scegliendo le maestranze, il direttore della fotografia, il fonico e gli attori giusti, hai fatto l’80% del film, e a quel punto devi solo organizzare il restante 20%, ma va da se».

Che tipo di regista è Donato Carrisi sul set?
«Serissimo, molto concentrato. Il bello di girare con un regista che è anche sceneggiatore è che conosce ogni sfumatura della storia e ti sa dire esattamente perché una tua reazione con gli altri attori sia giusta o sbagliata. Con lui non perdevi tempo: a qualsiasi domanda aveva una risposta. Mi sono trovato benissimo, sembrava che avesse sempre fatto il regista. Questa è la cosa che mi ha colpito di più: la sicurezza».

Dove avete girato?
«Sopra a Bolzano in un paesino sperduto in mezzo ai monti a 1.600 metri d’altezza che si chiama Nova Levante».

Che periodo dell’anno era ?
«Febbraio-marzo, faceva freddo, avevamo bisogno della nebbia e di un’ambientazione triste».

Domanda retorica: come è stato lavorare con Servillo?
«Con lui ho girato poche scene, ma credo che siano forse le due più “potenti” del film. Toni è uno dei più grandi attori che abbiamo in Italia. Ha creato un’energia forte sul set: è un caleidoscopio di sfumature, di intensità, di forze. Non devi avere mai paura di lavorare con un grande, anzi: quando hai davanti Anthony Quinn, Giannini, Toni Servillo, loro ti danno talmente tanto che si crea un corto circuito che si va in alto insieme e insieme si crea una piramide di energie, si raggiunge il vertice. Semmai, devi aver paura di girare con attori “piccoli” perché ti trascinano in basso».

Oltre a Servillo, anche il resto del cast è di alto livello.
«Sì, e penso ad esempio a Lucrezia Guidone che interpreta mia moglie: lei viene dal teatro e sono convinto che ne sentirete parlare sempre più spesso. Ha già vinto molti premi, è una grandissima attrice. Con lei le scene sono “viaggiate” da sole, non avevamo mai lavorato insieme, è bastata una prova».

Una domanda più generale sulla tua carriera. Quali sono i tuoi prossimi progetti, a cosa stai lavorando, e dove ti vedremo prossimamente tra cinema, teatro, televisione?
«A novembre mi vedrete in Tv su Rai 1 nella serie La strada di casa: interpreto un proprietario terriero, uno che ha un’azienda agricola in provincia di Torino, un giorno ha un incidente e quando si sveglia non riconosce chi ha di fronte. Ha passato cinque anni in coma, ed è cambiato tutto: i rapporti della moglie, la figlia di 12 anni che ora ne ha 17 e quindi è irriconoscibile. Lui cerca quindi di rimpossessarsi della sua memoria piano piano, ma così facendo scoprirà che forse non si piaceva neanche troppo come era. Con me ci sono Sergio Rubini, Lucrezia Lante della Rovere mentre la regia è di Riccardo Donna. Poi sto pensando al mio nuovo progetto teatrale che però è ancora in alto mare, ora c’è la genesi della scrittura, della drammaturgia, del pensiero. Dopo I Duellanti, riporterò il mio gruppo e la mia regia in scena».

Perché per tanti attori di cinema il teatro resta qualcosa di irrinunciabile?
«È una linfa vitale. Il teatro ti dà, il cinema ti prende. Il teatro ti riempie di immagini, ti arricchisce di pensiero, di grandi autori, di cose incredibili: stai 8-9-10 ore a sviscerare una scena che non ti viene e la ripeti il giorno dopo. Dove puoi avere il lusso di scandagliare i sentimenti umani in quel modo? Solo in teatro. Quando vai su un set cinematografico o televisivo devi girare: puoi fare anche 10 prove ma poi devi girare, il tempo è denaro. In teatro invece tutte le volte risvegli il sentimento, il rapporto con il pubblico: c’è un filo rosso che parte dal palcoscenico e va in platea. È una sorta di analisi di gruppo, questo è il tema. Il teatro è anche molto tosto, c’è una tensione superiore rispetto al cinema. Io uso spesso questo parallelismo: l’attore è come un trapezista che fa evoluzioni pazzesche in aria, che deve rimanere concentratissimo e non può permettersi di sbagliare altrimenti cade, solo che al cinema c’è la rete sotto, a teatro no. A teatro non puoi sbagliare la battuta: è questa l’enorme differenza, devi essere sicuro, avere dentro di te una tua sicumera, una tua maieutica».

Un’ultimissima domanda che mi piace fare agli attori e registi che intervisto: mi dici un film che hai visto recentemente al cinema e che ti è piaciuto particolarmente?
«Lady Macbeth. È un film tagliente. Sembra che non accada nulla, c’è solo intensità di sguardi, ma di grande potenza: lei è straordinaria, così come la regia. È un film forte, crudo, potente, essenziale».

 

 

 

 

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