Berlino 2019. Hellhole ovvero le anime perse di Bruxelles

Bas Devos scrive una lettera d’amore alla città ferita dagli attentati attraverso le storie (multiculturali) dei suoi abitanti

Medhi è un adolescente arabo che gioca a calcio e lotta con un’emicrania che forse ha a qualcosa a che fare con la cappa che incombe su Bruxelles da quando la città è stata sconvolta dagli attentati all’aeroporto e in metropolitana. La stessa cappa che incombe sulla vita di Alba (la nostra Alba Rohrwacher), che lavora come interprete alla Commissione Europea ma fatica a riconoscersi in quella vita solitaria fatta di incontri casuali e perenne stress professionale. Wannes è un medico fiammingo con un figlio lontano, impegnato in operazioni militari in Giordania, e una sorella che ha appena perso il marito, ma anche lui è soprattutto uno dei solitari abitanti di Bruxelles le cui vite si incrociano, senza però quasi mai toccarsi davvero nella pellicola di Bas Davos.

«Ho voluto fare una gesto d’amore verso la città in cui anche io vivo, una città che è stata profondamente segnata dagli attentati, che ancora ne sente il peso e fatica a tornare a guardare in alto»

Il film è la storia di una città e Davos è partito proprio interrogandosi su come raccontare  i suoi spazi « Per me una città è soprattutto un insieme di case e quindi sono le case dei personaggi che vendiamo, anche se l’idea era anche di lavorare sulla connessione tra il dentro e il fuori per cui ho spesso alternato inquadrature dell’interno e un punto di vista esterno, lavorando anche sul sound design per valorizzare questi passaggi »

Il film è indubbiamente un racconto corale ma al contrario di quanto accade normalmente in questo tipo di film corali l’intento non è di collegare a tutti i costi le varie linee; anzi il regista dichiara di aver voluto raccontare prima di tutto il senso di isolamento degli abitanti della città lasciando che queste storie procedano in parallelo.

«Quando ho iniziato a lavorare sulla sceneggiatura sapevo solo che volevo storie molto semplici, che tirassero fuori dei personaggi con cui empatizzare. Non volevo grandi eventi nella loro vita, piuttosto avvicinarli e raccontarli mentre affrontano questo particolare momento.  Più che tessere le storie una con l’altra ho voluto creare un’unità attraverso il sentimento che ognuno de personaggi vive: è questo che li accomuna».

Una scelta ambiziosa che si riflette nella regia, fatta di inquadrature lunghe e meditative, che portano a scoprire lentamente angoli e dettagli apparentemente insignificanti, ma pervasi da un senso di inquietudine che consuma le persone.

 

 

Foto: Courtesy of Berlinale 2019/ © minds meet

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