Crazy for Football, quando il calcio salva la vita. La recensione

Volfango De Biasi dirige un piccolo documentario sincero e toccante su una nazionale di calcio a 5 composta esclusivamente da persone con problemi psichiatrici nel loro passato

The craziest world cup: un campionato del mondo di calcio a 5 cui gareggiare, in Giappone, con una squadra formata esclusivamente da persone con alle spalle dei problemi psichiatrici, che nella stragrande maggioranza dei casi continuano a lasciare dei segni tangibili, tanto somatici quando identitari, sul loro presente. Il regista Volfango De Biasi rimette mano al progetto Matti per il calcio, documentario al quale si era già dedicato nel 2004, tornando sul medesimo argomento con un nuovo lavoro, dalla spiccata curiosità umana e dal calore decisamente contagioso.

Il risultato è un film piccolo ma sincero, privo di velleità ma affettuoso e tenerissimo verso gli uomini che mette in scena e le storie che racconta. Un’opera che anche laddove rischia di scivolare sui cliché più abusati dal cinema del dolore e della sua controparte documentaria riesce in un modo o nell’altro a non trasformare tali elementi in un dannoso e controproducente sfoggio di lacrime a buon mercato: a contare, nonostante l’invadente voce del regista nelle interviste e un commento musicale talvolta troppo stonato, è sopra ogni altra cosa la sfera affettiva e interiore dei personaggi, impegnati in un percorso di ricostruzione sociale e comunitaria della propria immagine pubblica che non può che passare da ostacoli e limiti di varia natura.

Quale miglior strumento del calcio, allora, per rimettere insieme i cocci del singolo, facendoli confluire in un disegno più grande, in un’idea collettiva e condivisa di squadra, di gioco, di vita? Il calcio, dopotutto, col suo potere aggregatore e la natura corale, fantasiosa e potenzialmente sterminata  delle sue soluzioni estetiche e tattiche, è uno sport che si presta come nessun altro ad esplorare più ruoli e possibilità, confrontandosi coi propri limiti e rilanciando contemporaneamente e auspicabilmente le proprie possibilità. In modo fluido e sinergico, avvolgente e, nella migliore delle ipotesi, generosamente imprevedibile.

In quest’esperienza che richiama alla mente “la memoria emotiva di quando si era malati”, secondo le parole dello psichiatra Santo Rullo, anima ispiratrice del progetto e pilastro portante dell’intera operazione, ciò che conta, sempre per citare Rullo, è: “una battaglia fondamentale: reinserire le persone con disagio mentale in un tessuto sociale che tende a isolarle e stigmatizzarle”. Un’impresa autenticamente brancaleonica (i giocatori, per caricarsi prima di un incontro, usano proprio una celebre frase del film di Monicelli), quasi donchisciottesca eppure proprio per questo doppiamente necessaria. Il film racconta in fondo, con gioviale urgenza, il tentativo ostinato di farcela, oltretutto e nonostante tutto, e poco altro. Un elogio della follia docile e in punta di piedi, dotato di sincera grazia, che parla di sociale senza rimestare in maniera ombrosa nel tragico e nelle colpe collettive. In altri casi si parlerebbe di codardia, in casi come questo è un pregio. Anche piuttosto evidente.

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