Festa di Roma 2019, Downton Abbey: la recensione di Roberto Recchioni

L'atteso proseguimento della serie arriverà nelle sale italiane il 24 ottobre

Downton Abbey

QUEL CHE RESTA DI DOWNTON

Spesso si fa confusione tra le serie televisive che trovano un remake-reboot al cinema e quelle che, invece, proseguono la loro vita al cinema, dopo averla conclusa sul piccolo schermo. C’è una differenza enorme tra i due tipi di opere: i remake-reboot sono una reinvenzione della proprietà intellettuale originale che possono prendersi tutte le libertà che vogliono (sfidando le aspettative dei fan) per quello che riguarda il cast, il tono, la storia, la messa in scena e via dicendo. Un remake-reboot si pone come obiettivo, inoltre, quello di essere autonomo rispetto al suo progenitore e fruibile anche da chi, la serie originale, non l’ha mai vista.

Tutto questo non vale per quelle opere che, invece, sono la diretta prosecuzione cinematografica di un prodotto nato come televisivo. In quel caso, diventa fondamentale riunire il cast originale, tornare sui set già conosciuti, rispolverare i costumi e creare una storia che sia un significativo proseguimento di quanto già raccontato. Questo tipo di operazioni sono rivolte, in primissimo luogo, al pubblico già serializzato da serial e, solo in seconda istanza, a un pubblico più generalista che potrebbe avvicinarsi comunque al prodotto. Questo significa che un film che prende le mosse da una serie televisiva e che la porta avanti, è generalmente più difficile da strutturare e più rischioso da produrre. Ed è per questo che al cinema ci sono tantissimi remake-reboot di vecchi telefilm e pochi sequel delle serie più amate. Andando a memoria, gli esponenti della seconda categoria che mi vengono in mente senza consultare l’oracolo di Google sono tutti gli Star Trek fino all’arrivo di Abrams, il controverso prequel di Twin Peaks, la coppietta di pellicole dedicate a X-Files, il coraggioso esperimento di Firefly/Serenity, i due lungometraggi di Sex and the City, i due Mr. Bean, lo straordinario film di South Park, il deludente film dei Simpson. Tutto il resto, dai Transformers a Baywatch, sono rifacimenti, certe volte riusciti, altre volte (molto più spesso), no.

Dunque, cosa ci dice il fatto che nelle sale di tutto il mondo è arrivato Downton Abbey?
Prima di tutto, che il successo della serie è stato così ampio e universale da giustificare l’idea di investire parecchi soldi in un’opera che poteva essere realmente apprezzata solamente da chi già conosceva le vicende di casa Crawley. E poi ci fa intuire che Julian Fellowes, ideatore di tutto quanto e sceneggiatore di molto, deve essere una persona che sa suscitare un forte senso di lealtà e riconoscenze, perché non era per nulla scontato che un cast così ampio e variegato fosso disponibile a riunirsi nuovamente per un ulteriore giro di danza. E invece, ecco qui, i nobili e la servitù, tutti pronti a rispondere alla chiamata della casa reale britannica. Sì, perché tutta la vicenda prende avvio da una visita del Re e della Regina d’Inghilterra a Downton, con tutto quello che questo comporta, dal lucidare l’argenteria a risolvere questioni d’etichetta, dalle gelosie ai vari melodrammi.

Ora, devo fare due premesse: la prima è che sono un fan sfegatato della serie. La seconda è che sono una persona piuttosto intransigente quando si parla di linguaggio cinematografico. Per questo la farò brevissima e senza girarci troppo attorno: se preso come film autonomo, questo Dowton Abbey è piuttosto mediocre se paragonato a pellicole come Quel che resta del giorno, o Casa Howard, o L’Età dell’Innocenza o Gosford Park. La storia è blanda, la tensione all’acqua di rose, i personaggi appena abbozzati (perché è previsto che lo spettatore già li conosca bene) e la morale conservatrice di fondo è, a tratti, urticante. Certo, la messa in scena, la cura dei dettagli e lo sfarzo sono notevoli ma, lo ripeto, come film in quanto tale è un lavoro dimenticabilissimo.
Come lungo speciale natalizio della serie televisiva, invece, il discorso cambia, perché da membro aggiunto della famiglia Crawley, non avrei potuto volere di meglio. È un nuovo episodio della serie ma più lungo e più bello a vedersi. Ci sono tutti i personaggi che amo, vestiti con costumi ancora migliori del solito, che fanno esattamente quello che mi aspetto che dicano e facciano. La casa è sempre quella, ma più bella, più ricca, illuminata e fotografata meglio. La campagna è più verde, le auto più lucide, i treni più sferraglianti, le strade più lunghe, i panorami più profondi. E, ovviamente, Lady Violet è più Lady Violet di sempre.

Il film di Dowton Abbey è un episodio della serie al suo massimo, con tutti i sui enormi pregi e senza i già trascurabilissimi difetti. Una gioia per gli occhi e per lo spirito per i fan. Ma per chi non è un fan o per chi la serie non l’ha mia vista, il film non è, e non può essere, un’opera significativa in nessuna maniera. Ed è un peccato.
Forse si sarebbe potuto osare di più. Ma poi, se mi avessero tradito lo spirito originale, io li avrei saputi perdonare in nome del loro coraggio? Probabilmente, no.
E allora, va bene anche così.
Ne voglio altri.

© RIPRODUZIONE RISERVATA