Festa del Cinema di Roma: Meryl Streep è Florence, la cantante lirica più stonata di sempre. La recensione

L'attrice americana incanta ancora una volta in un ruolo e in un film che sollevano interrogativi non banali sui limiti e la definizione delle performance artistiche

Come nella fiaba di Andersen, I vestiti nuovi dell’imperatore (“Il re è nudo!”), nessuno aveva mai detto ad alta voce che Florence Foster Jenkins era stonata come una campana, al punto che lei stessa si era convinta di avere un certo talento.

Erede di una immensa fortuna familiare, la Jenkins usava il suo patrimonio per finanziare le attività culturali della città di New York, e in particolare i teatri e le istituzioni operistiche, di cui era non di rado presidentessa onoraria. Questa generosità, assieme a un carattere amabile, le avevano garantito una specie di amnistia critica, a cui tutti quanti, per interesse o affetto, avevano aderito. La Jenkins infatti, a partire dai 44 anni, iniziò una carriera da cantante, dapprima in privato o all’interno dei circoli culturali che frequentava, e poi in pubblico.

Il film di Stephen Frears racconta questa fase della sua vita, e in particolare il rapporto con il secondo compagno St.Clair Bayfield (Hugh Grant), al quale la legava una relazione platonica ma sinceramente affettuosa. Bayfield si occupava di organizzare le passioni, le attività benefiche e gli spettacoli della Jenkins, il che spesso significava anche pagare i critici dei quotidiani perché evitassero le stroncature, o consegnarle la mattina soltanto i giornali compiacenti.

Ma Florence volle esporsi sempre di più, al punto da incidere un disco con i suoi cavalli di battaglia, una serie di arie nelle quali si sentiva particolarmente a suo agio. E poi un concerto pensato per le truppe americane alla Carnegie Hall, nel 1944, in piena Seconda Guerra Mondiale. Aveva già 76 anni, e un vecchio cuore indebolito da una forma di sifilide, contratta in gioventù dal primo marito. La reazione del pubblico e dei giornalisti fu terribile, ed ebbe conseguenze pesanti sul suo morale e la sua vita.

Il tema è delicato, nonostante il primo strato del film sia la commedia di costume, tutta buone maniere e interpretazioni stilizzate. Perché Florence è la messa in scena di una sospensione del gusto e del senso comune per ragioni il più delle volte ambigue.
Perché alimentare il sogno di questa donna? C’era solo la convenienza economica o in lei resisteva una forma di creatività artistica che nessuno ha mai fissato in una definizione? La risposta è forse perfino oltre l’intento del film, ma è un fatto storico che il disco che la Jenkins incise ebbe una grande diffusione, e che perfino in quella serata disgraziata molti rimasero al loro posto fino alla fine. Insieme alle risate isteriche, ci furono gli applausi.

Tutto questo solleva naturalmente domande che portano lontano da tante altre opere sullo stesso tema – il ruolo del talento, dell’ispirazione, della tecnica in una performance d’arte, e come dialogano -, e che rendono Florence in un certo senso complementare al bellissimo Genius (presentato anch’esso oggi a Roma), sulla vita dello scrittore Thomas Wolfe.

Sull’ennesimo ruolo da nomination di Meryl Streep c’è poco da aggiungere, questa donna è non solo baciata da capacità straordinarie – il genio che si esprime nelle minuzie -, ma da un’attitudine limpida e popolare, del tutto accessibile: chiunque ne beneficia senza difficoltà. In scena con lei, Hugh Grant accede a una sottigliezza interpretativa che gli abbiamo visto di rado. E tutto il film è così, ha una misura precisa, nessuna forzatura per divertire o commuovere: un gesto di assoluta naturalezza.

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