Festa di Roma, Martin Scorsese presenta The Irishman: «Senza Netflix non sarebbe mai esistito»

È arrivato finalmente il giorno dell'ultimo, attesissimo film del grande maestro del cinema americano, mafia movie crepuscolare con protagonisti Robert De Niro, Al Pacino e Joe Pesci

Martin Scorsese alla Festa di Roma 2019 presenta The Irishman

Alla Festa del Cinema di Roma è finalmente arrivato il giorno di The Irishman, uno dei film più attesi dell’anno, circondato da tempo immemore da una curiosità febbrile. E ad accompagnarlo, orfano dei suoi strepitosi attori, è arrivato anche il regista Martin Scorsese, che in conferenza stampa ha ricevuto un lungo applauso dalla platea prima di prendere la parola con un atteggiamento risoluto ed energico. Una tempra che ha trasmesso tutta la forza e l’ostinazione con cui ha portato avanti nel tempo questo mafia movie da 150 milioni di dollari, realizzato con Netflix e a lungo rifiutato da moltissime case di produzione.

Il film racconta di Frank Sheeran (Robert De Niro), un veterano della Seconda Guerra Mondiale che incontra l’uomo del (suo) destino: Russell Bufalino (Joe Pesci), boss della mafia a Filadelfia. Russell presenta Frank a Jimmy Hoffa (Al Pacino), il capo del sindacato dei camionisti, più popolare a quel tempo di Elvis e dei Beatles messi insieme: i due saranno i protagonisti di un’epopea criminale fluviale e dal sapore terminale e definitivo, che scorre parallelamente al susseguirsi di eventi cruciali della storia americana del secondo Dopoguerra.

«L’ultimo film che io e De Niro abbiamo fatto insieme era Casinò, nel 1995, e volevamo lavorare di nuovo insieme – racconta Scorsese in apertura, con al suo fianco la produttrice Emma Tillinger Koskoff -, Cercavamo il personaggio giusto per tornare a collaborare. Lui ha letto il libro di Charles Brandt I Heard You Paint Houses e mi ha detto di dargli un’occhiata. Nel descrivermi questo personaggio si è molto emozionato, aveva tanto da dire e ho percepito nelle sue parole qualcosa di speciale, come se fossimo tornati indietro a Quei bravi ragazzi e allo stesso Casinò».

«Il film è stato spesso ritardato e negli anni ci siamo resi conto che riguardava da vicino noi stessi, il trascorrere del tempo e la mortalità di tutti, l’età, l’amore, il tradimento, il rimorso – continua il maestro newyorkese -, Frank alla fine rimane da solo, non importa più chi ha ammazzato chi, quali gangster sono morti e quali no. Con Steven Zaillian, lo sceneggiatore, è andata allo stesso modo: volevamo raccontare la storia di un’intera vita. Un film per essere contemporaneo non deve essere ambientato nel presente. Ciò che conta è la condizione umana, che rende le esperienze dei protagonisti comprensibili anche per persone che non erano presenti negli anni in cui la storia si svolge».

A chi gli chiede se si tratta di un film più malinconico del solito, Scorsese risponde così: «La malinconia c’è, così come la religiosità e la spiritualità, ma la malinconia è più un agio. Frank ha tagliato i ponti con tutti, a cominciare dalla sua famiglia, e tutta quella violenza che ha commesso appartiene al passato. Nell’accettare la propria morte c’è sempre una sensazione di questo tipo. Io e gli attori non abbiamo mai pensato di spettacolarizzare la vicenda, il processo doveva essere tutto interiore. Con De Niro ci siamo ritrovati con la massima naturalezza, non abbiamo neanche dovuto parlare tanto dopo 23 anni dall’ultima volta. Ci siamo scambiati qualche osservazione, ma niente di particolare. Il mio e quello di Steven Zaillian era un approccio quasi nudo, in cui non si doveva necessariamente spiegare tutto. Ci sono le notizie che passano in televisione, i missili su Cuba, l’elezione di Kennedy e tanto altro, ma nessuno sa cosa succede davvero nel mondo né può spiegare il mistero della propria mortalità. Tutto ciò è valido ancora oggi».

Con Al Pacino, invece, Scorsese non aveva (incredibilmente) mai collaborato prima, nonostante si tratti di due conclamati leoni della vecchia Hollywood. «Io e Al Pacino abbiamo voluto sempre lavorare insieme. Ci presentò Francis Ford Coppola negli anni ’70, volevamo fare un film su Modigliani negli anni ’80 ma non è stato possibile, mentre l’idea di far fare Jimmy Hoffa ad Al è di Bob (De Niro, ndr). C’era un clima speciale sul set, gli attori sentivano di stare facendo qualcosa di unico, tanto che volevano girare anche quand’erano troppo stanchi per farlo».

The Irishman, che arriverà nelle sale italiane dal 4 al 6 novembre in dei cinema selezionati e su Netflix dal 27 novembre, ha avuto com’è noto una lavorazione lunghissima e travagliata, soprattutto per via della trasformazione anagrafica degli attori, ringiovaniti al computer: «Il digitale era l’unico modo per farlo, volevo fare un film coi miei amici, senza far interpretare i personaggi di Al, Bob e degli altri interpreti ad attori più giovani. Netflix ci ha fornito la possibilità di questa magia digitale, tutto il tempo che volevamo e di cui avevamo bisogno per girare, libertà creativa completa e assoluta e sei mesi in più per la post-produzione».

«Abbiamo utilizzato una tecnologia sperimentale – aggiunge concedendo in coda un breve cenno alla polemica con la Marvel di cui si è tanto discusso negli ultimi giorni -, un procedimento complicato ma mistico. Le major non volevano fare il film, poi è arrivata Netflix e il loro mi è sembrato un buon accordo. Alcuni miei film, come Re per una notte, sono stati in sala solo 2 settimane, mentre questo vi resterà almeno 4 settimane, come mi hanno garantito. Per vederli i film, ovunque tu voglia vederli, prima devono essere fatti. Un autore non può avere il controllo totale su come il suo film viene visto. Ma conta anche che il cinema non coincida, per i nostri figli, solo con gli adattamenti dei fumetti e i parchi a tema che occupano le sale oggi. Bisogna smettere di pensare al cinema in maniera rigida».

Scorsese si è infine detto lusingato se il suo ultimo film verrà accostato a C’era una volta in America di Sergio Leone e ha rispedito al mittente la protocollare e immancabile domanda sulla scarsa presenza di donne nel suo cinema, mostrando una certa insofferenza«Questa domanda mi perseguita da così tanto tempo, dagli anni ’70. È la storia a chiamare il suo protagonista ideale, non importa se uomo o donna. Non contano allora L’età dell’innocenza, di cui nessuno si ricorda mai, o Sharon Stone in Casinò? Non ho più tempo da sprecare con queste cose, alla mia età. Ho 76 anni, non ho più tempo».

Foto: Getty Images

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