Hardcore, il film-videogioco più malato di sempre. La recensione

Quello diretto dal regista russo Ilya Naishuller, è un mix furioso di azione, violenza e autoironia che intrattiene e ridefinisce il rapporto tra cinema e mondo videoludico

Lo si poteva intuire facilmente sin dal primo trailer: Hardcore è un videogioco live-action. NON un semplice adattamento. La differenza è abissale e comprenderla è la chiave per capire con che tipo di operazione abbiamo a che fare. Alla base, c’è una fedele traduzione dei codici videoludici applicati al sistema filmico. Per chiarire, l’operazione è simile a quella realizzata da Robert Rodriguez con Sin City: così come il film del regista americano dà vita alle pagine del fumetto di Frank Miller, nell’opera del regista russo Ilya Naishuller, girata interamente in GoPro, è possibile riconoscere tutti gli archetipi di gameplay e scrittura di uno sparatutto in prima persona (first person shooting). Anzi, volendo ampliare lo sguardo, di un qualsiasi gioco RPG.

Chiunque abbia anche solo un minimo di esperienza da giocatore, non avrà difficoltà a orientarsi: si comincia con l’equivalente del tutorial, in cui Henry, il cyborg senza memoria protagonista, prende consapevolezza della situazione in cui si trova e delle proprie abilità, per entrare quindi nei vari livelli della missione, uno più difficile dell’altro, sino allo scontro con il mostro finale. Per superarli, gli vengono messi a disposizione i classici suggerimenti di gioco e le risorse indispensabili per sopravvivere, che siano armi, munizioni o cariche energetiche. Si percepisce persino quel senso di disorientamento spaziale tipico degli FPS, a cui comunque ci si abitua strada facendo. L’immersione, in questo modo, è totale e porta lo spettatore ad assumere una duplice posizione: da una parte, si crede l’eroe della storia, perché la vive con i suoi occhi, dall’altra si sente un giocatore, che manovra il protagonista dal divano di casa. E lo fa con una maestria da fuoriclasse (o di chi ha disattivato codici segreti dell’immortalità), poiché a mancare è il meccanismo di rewind (morte-resurrezione), su cui, per esempio, si fondava Edge of Tomorrow, il film di Doug Liman con Tom Cruise contro gli alieni. È il solo aspetto dell’universo videoludico lasciato un po’ in disparte, forse anche volutamente, per non spezzare troppo il ritmo della storia.

In un progetto di questo tipo, il rischio è che del prodotto cinematografico in sé si perda ogni traccia, tanto è dominante la dimensione da videogioco. Ebbene, il pericolo si evita grazie al montaggio che non dà tregua, in linea con il trend ipercinetico dell’action moderno (sembra un lungo piano sequenza da quanto i cut sono ben nascosti e si respira qualche secondo solo grazie ai piccoli flashback di Henry e mini-ellissi spazio/temporali), una fotografia sporca e una sceneggiatura fluida e lineare, che prende corpo da uno spunto narrativo sempre caro alla fantascienza – il binomio uomo-macchina e l’interesse nel scoprire dove inizia l’uno e finisce l’altro – per mischiarsi con il pathos del survival, un buon livello di humor (e tanta autoironia) e una violenza splatter, amplificata dalla visione in soggettiva. Senza dimenticare la presenza di un attore come Sharlto Copley, qui nei panni di un personaggio dai tanti volti, uno più folle dell’altro. Non è un caso, poi, che alla produzione ci sia Timur Bekmambetov, uno che quando si tratta di contaminare registri non si tira mai indietro (si pensi a Wanted o Unfriended, l’horror su Skype sempre da lui prodotto).

Un’esperienza da vivere, insomma, che apre suggestivi scenari di commistione tra il cinema e le tante realtà che vi orbitano intorno.

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