Independence Day: l’intro del cult di Emmerich vista da Roberto Recchioni

A 20 anni dall'uscita nelle sale, torna in home video il celebre blockbuster in cui il regista dimostra di essere un abilissimo prestigiatore, capace, con pochi mezzi, di far creder al pubblico l'impossibile

Dallo scorso febbraio, Roberto Recchioni (fumettista e romanziere, oltre che curatore di Dylan Dog per la Sergio Bonelli Editore) firma su Best Movie A scena aperta, rubrica in cui svela i segreti delle scene più belle dei film disponibili in home video.

Alla macchina cinematografica americana piacciono i film tremendamente spettacolari che costano un sacco di soldi e che ne incassano dieci volte tanto. Ma sapete cosa ama ancora di più? I film tremendamente spettacolari che costano una cifra ragionevole di soldi, ma che ne incassano cento volte tanti. È per questo che gli Stati Uniti d’America sono diventati la nuova casa del tedesco Roland Emmerich, uno che nel 1992 confeziona un filmetto di fantascienza da soli 20 milioni di dollari con Van Damme e Dolph Lundgren, due attori che fino a quel momento hanno frequentato solo il cinema di seconda o terza categoria. La pellicola si intitola Universal Soldier e se in USA va abbastanza bene (36 milioni), nel resto del mondo diventa campione di incassi, lanciando Van Damme nel giro grosso e salvando (temporaneamente) la Carolco dal fallimento. Per Lundgren, invece, non c’è niente da fare e dovrà aspettare Stallone e i suoi Expendables per ottenere la giusta visibilità.

Il film successivo di Emmerich è Stargate che ha un cast di star un poco appannate ma comunque ancora con un certo nome da spendere e, sopratutto, può vantare degli effetti speciali molto buoni che lo fanno apparire una produzione di primissima fascia quando il film ha un budget piuttosto moderato. Meno, molto meno, di una quarantina di milioni per un incasso mondiale di 125. È la dimostrazione che il tedesco ha il tocco giusto. È la volta di dargli fiducia. Che nel gergo hollywoodiano non significa solo mettergli a disposizione parecchi più soldi ma anche fornirgli un cast all’altezza (tra cui l’astro nascente Will Smith e un Jeff Goldblum ancora fresco del successo mondiale di Jurassic Park) e, soprattutto, una data di uscita di quelle che possono trasformare un film in un successo o un disastro: il 4 luglio, il giorno dell’indipendenza americana. Il titolo è, ovviamente, Independence Day, e il resto è storia dei blockbuster. Quello che però mi preme sottolineare è che Independence Day è un film da 75 milioni di dollari che sembra costarne duecento. Per farvi capire, sempre nell’estate del 1996 uscì anche The Eraser, tradizionale thriller con Arnold Schwarzenegger a base di enormi fucili  ed esplosioni, che di milioni ne costò cento e che in confronto alla pellicola di Emmerich sembra un episodio dei Cesaroni, in termini visivi. Il punto è semplice: al netto delle sceneggiature che decide di portare sullo schermo, Emmerich è molto intelligente sul piano produttivo e sa come spettacolarizzare il materiale che ha a disposizione per dargli il massimo risalto possibile. Gli effetti speciali di Independence Day non sono realmente spettacolari come sembrano e di certo non sono innovativi come quelli di Jurassic Park o Terminator 2 (film rispettivamente di tre e cinque anni prima); sono piuttosto un misto sapiente di classici modellini, mostri di gomma e basilari effetti visivi e digitali. Ma allora cos’è che li rende così spettacolari? La maniera in cui Emmerich li inquadra e, soprattutto, il modo in cui li contestualizza. Prendiamo tutta la sequenze iniziale del film, per esempio, quella in cui la flotta d’invasione aliena non ci è stata ancora mostrata nella gloriosa bellezza di un matte painting entrato nella storia del cinema. Come decide di raccontarci questa immane forza d’invasione il regista tedesco? Con un elemento di grande efficacia e minima spesa: la sua ombra (immagine 1 nella gallery in fondo). Siamo sulla Luna e vediamo il LEM (il modulo lunare dell’Apollo) ancora lì dove Aldrin e Armstrong lo hanno lasciato (immagine 2), insieme alle loro impronte (immagine 3) e alla bandiera a stelle e strisce (immagine 4). La sabbia del satellite comincia a tremare per una forte vibrazione e poi, la faccia in luce della Luna viene coperta dall’ombra di qualcosa che la sta sorvolando (immagine 5). Qualcosa di enorme. L’attimo dopo vediamo un pezzettino della nave madre sorvolarci (immagine 6). È un modellino, per nulla diverso da quello usato da Lucas per la scena di apertura di Star Wars (anzi, se vogliamo dirlo, è di qualità inferiore) ma il contesto con cui Emmerich ce lo ha introdotto ce lo fa apparire tremendamente concreto e tremendamente grande, perché lo abbiamo visto in relazione a qualcosa di reale (il modulo lunare) e di cui conosciamo, grossomodo, le dimensioni.

Il trucco dell’ombra verrà ripetuto più volte nella prima parte del film, quando le navi madri stanno ancora raggiungendo il loro punto d’attacco. Grattacieli e cittadini newyorkesi che sollevano lo sguardo mentre l’ombra lentamente, e implacabilmente, li copre. Monumenti storici che finiscono ammantati dall’oscurità. La vastità del deserto che di colpo si fa scura. La luce che cede il passo alle tenebre. E dopo un inizio del genere, il resto del film è tutto discesa perché ogni elemento alieno messo in scena ci apparirà non solo più grande, ma anche più minaccioso e tremendamente credibile. Costo effettivo di tutto questo? Praticamente zero. La sua efficacia? Assoluta. Ed è questo il segreto di Roland Emmerich: la piena consapevolezza che la regia non è altro che il numero di un abile prestigiatore capace di far credere al suo pubblico l’incredibile, ingannandolo e sfruttandone l’emotività per ottenere un effetto speciale che non si compra con budget faraonici, ma con la fantasia del pubblico stesso. Ed è per questo che pur sapendo che è tutto un trucco, noi la chiamiamo “la magia del cinema”.

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