Jim Sheridan all’attacco del sistema: «Netflix è pirateria»

Il regista irlandese, ospite dell'IrishFilmFesta a Roma, ci ha parlato del suo nuovo film, Il segreto, in sala dal 6 Aprile, ma anche del mercato cinematografico contemporaneo, al quale non ha risparmiato violente stoccate

Durante l’ultima edizione dell’IrishFilmFesta, speciale focus sul cinema irlandese di ieri e di oggi che si tiene ogni anno alla Casa del Cinema di Roma, abbiamo incontrato Jim Sheridan, regista politico con alle spalle film importanti e potenti come Il mio piede sinistro e Nel nome del padre e di ritorno nelle sale italiane il 6 Aprile con Il segreto, sua ultima fatica, con nel cast Rooney Mara, Eric Bana e Vanessa Redgrave. Un film incentrato su una madre la cui bambina è stata portata via dalla Chiesa durante la seconda guerra mondiale: una situazione che, secondo Sheridan, era all’ordine del giorno nell’Irlanda di quel tempo. Il cineasta irlandese non girava nella propria terra natale dal 1997, anno di The Boxer, al quale sono seguite non poche esperienze hollywoodiane.

Sheridan, un’istituzione per il cinema del proprio paese attraverso una serie di film di incandescente portata etica e retorica, non ha perso la vena battagliera, l’antipatia congenita per il sistema e le sue storture, la voglia di inoltrarsi nelle pieghe e nelle deformità della Storia. Lo si capisce anche semplicemente chiacchierando insieme a lui, nella maniera più colloquiale e affabile possibile, de Il segreto e non solo: «Ciò che mi ha colpito di questa vicenda è l’idea di raccontare la storia di una donna intrappolata in una piccola comunità cattolica, un aspetto sul quale mi eccitava molto soffermarmi. Si tratta di qualcosa al quale sono legato per via delle mie origini, ma ad ossessionarmi in profondità era soprattutto la storia della donna e del bambino e la voglia di mettere in scena una sorta di vendetta al femminile in un mondo totalmente maschile».

Sheridan è palesemente un intellettuale e un grande appassionato di storia, ragion per cui oltre a parlare del suo film si lancia spesso in considerazioni di più ampio respiro, che accompagna con gesti eloquenti, frasi appassionate, perfino disegni sul retro del pressbook del film. «L’immigrazione ha influenzato moltissimo usi e costumi dell’America, anche per quel che riguarda la distanza dalle sale di coloro che vivevano in campagna. Per non parlare del cattolicesimo, che negli Stati Uniti, paese nel quale io stesso sono andato a vivere, ha avuto una storia complessa e articolata. Penso ad esempio a Kennedy, una persona estremamente intelligente, che l’ha usato volgendolo a suo favore per vincere le elezioni e costruendo una sorta di Camelot matrimoniale insieme a Jacqueline Kennedy. La mentalità cattolica e quella protestante differiscono molto: nei film di Scorsese c’è la mafia, la comunità, la famiglia; ma ci sono anche Spiderman, Iron Man, l’ispettore Callaghan, individualisti che vanno avanti con la loro testa, forti delle loro azioni».

Quando gli si fa notare che proprio l’allusione a Camelot, leggendaria fortezza di Re Artù, è uno dei leitmotiv del recente Jackie di Pablo Larraín, Sheridan ammette candidamente di non averlo ancora visto. Sul mercato cinematografico di oggi,  specialmente per quel che riguarda la distribuzione in sala e la dimensione theatrical dell’esperienza, ha invece idee molto chiare e molto forti, perfino scomode e discutibili: «Non c’è molta scelta, se da un lato c’è Netflix e lo streaming non abbiamo molta possibilità di competizione. Le minoranze linguistiche che non lavorano con l’inglese rischiano di essere schiacciate, inevitabilmente e senza scampo. Guardo la televisione italiana e la serialità che producete, mi è capitato anche l’altra notte mentre ero qui in Italia. A volte i vostri prodotti sono fantastici, altre volte terribili. Spesso però preferisco le performance degli attori italiani, anche quando alle prese col doppiaggio dei film stranieri, perché avete davvero un’ottima scuola di attori. Di base, comunque, in America non si guardano film stranieri, non c’è la cultura dei sottotitoli e negli anni si è andata assottigliando, a mio modo di vedere, anche l’attenzione per i prodotti d’autore in lingua originale e il cinema arthouse».

Dopo aver accennato al divario linguistico tra America e altri paesi, Sheridan torna volentieri sul tema, che pare stargli molto a cuore, da europeo e irlandese che ha conosciuto da molto vicino anche la macchina hollywoodiana: «Ciò che pesa più di tutto è la segmentazione dei mercati. Se in uno stato europeo hai un mercato di 50, 60, 70 milioni, non puoi competere con un mercato americano che ne smuove 300. L’America in tal modo avrà sempre il sopravvento, ci vorrebbe un’unificazione dei mercati europei. La funzione del mercato non è una funzione artistica. L’arte è sempre l’opposto del mercato. Netflix e Amazon oggi fanno i loro film da soli, guadagnano molti soldi e alla gente questo sembra un prototipo. Ma se in America la prima industria è quella degli armamenti militari, la seconda sono i film. Quando parli di pirateria, io trovo che tutto il sistema intero sia pirateria. Netflix, che di fatto è un sistema di consegna dei film, è pirateria. Steve Jobs è pirateria. Non può essere una coincidenza che voi europei avete avuto Fellini, Antonioni, Godard, Truffaut, Bergman, Wim Wenders e adesso il nulla. Paolo Sorrentino e Nanni Moretti sono senza dubbio dei grandi registi, ma non c’è un Fellini in giro, al giorno d’oggi. Sicuramente è un problema di mercato, non di arte».

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