Mia Martini – Io sono Mia: Serena Rossi è l’amata cantante nella biografia evento. La recensione

Il film, nelle sale per tre giorni (14, 15, 16 gennaio) sbarcherà in prima serata su Rai Uno dopo il Festival di Sanremo

Mia Martini - Io sono Mia

Mia Martini è stata senza ombra di dubbio, insieme a Mina, l’interprete più profonda e sfaccettata della musica leggera italiana. Una cantante rabbiosa e commossa, attraversata da un’esistenza piena di tormenti che ha portato in molti, per grettezza e probabilmente per invidia, a bollarla come una presenza iettatrice, come un gatto nero da scansare.

Questa fusione possente tra arte e vita ha reso la sua esperienza artistica uno dei tasselli fondamentali di quell’autobiografia nazionale e sentimentale che solo la musica, e in particolare certa musica popolare, può restituire e fissare nell’immaginario collettivo: per tutti Mia Martini è stata l’artista schietta e anti-conformista che ha legato il suo nome a brani memorabili come Piccolo uomo, Gli uomini non cambiano, E non finisce il cielo e l’indimenticabile Minuetto, cucitale addosso su misura da Franco Califano e in assoluto il suo 45 giri più venduto, che la fece conoscere in tutta Europa fino ad accostarla, in Francia, a Edith Piaf.

Era dunque impresa ardua quella del biopic Mia Martini – Io sono mia, prodotto da Rai Fiction e per la regia di Riccardo Donna. Una sfida che, nonostante il rischio del bignami sia sempre dietro l’angolo, può dirsi però complessivamente vinta. Perché la sincerità e la commozione dell’operazione sono indubbie, così come filologica, nonostante le esigenze di semplificazione e di sintesi, è l’adesione a un vissuto umano e artistico, privato e sentimentale.

Vediamo la vita di Domenica Berté, che prese il suo nome d’arte dall’attrice Mia Farrow e dal noto drink, scandita in flashback, a partire dal countdown delle ore che separarono Mia Martini dall’esibizione a Sanremo ’89 con l’indimenticabile Almeno tu nell’universo. Con dentro, naturalmente, tutto o quasi: le polveri e gli altari, i giornalisti e i manager, le dicerie e le passioni, dagli anni d’oro al declino e all’addio alle scene, dall’Olympia di Parigi alla sagra della pizza fritta (glissando, pudicamente, sulla tragica morte). Con addosso il dolore e l’energia di sempre, riversati in una voce dall’estensione sovrumana.

L’esistenza di Mimì, nomignolo confidenziale col quale è e rimane nota a molti, è trasposta in maniera accorta anno dopo anno, con la consulenza delle sorelle Loredana e Olivia a fare da garanzia. Non ci sono tuttavia Ivano Fossati, grande e tormentato amore della sua vita, e l’amico di lunga data Renato Zero, che hanno preferito non comparire e non concedere l’autorizzazione per essere rappresentati.

Mia Martini - Io sono mia

Un limite non da poco, aggirato attraverso il ricorso a due personaggi paralleli (un fotografo e un compagno di scorribande più simile a un giovane David Bowie), che però non inficia la spudoratezza accorata del prodotto e il suo intimo desiderio di riportare alla ribalta non solo una voce unica e irripetibile ma anche gli umanissimi tormenti che contribuirono a renderla così grande ed esposta all’empatia del grande pubblico.

Oltre alla Mia Martini fragile e abbandonata a se stessa, che amava Aretha Franklin ed Ella Fitzgerald, emerge infatti anche la bestia ferita tramortita dal rapporto problematico col padre e con degli amori sempre gestiti a mani nude, con quella maledetta tendenza a donarsi completamente agli altri, senza alcuna distinzione di sorta tra gli ascoltatori della sua musica e coloro che le gravitavano intorno.

Un’arma a doppio taglio che la protagonista Serena Rossi si prende il coraggiosissimo rischio di incarnare, aderendo con umiltà e verosimiglianza alla mimica di Mia Martini e all’autarchia evocata dal titolo (se lo leggiamo con l’aggettivo possessivo al posto del nome proprio). Ma anche alle sigarette fumate una dopo l’altra, alla risata nervosa e alle smorfie che le abbruttivano il volto tanta era la forza delle sue interpretazioni (un aspetto di cui la cantante era perfettamente consapevole, e sul quale ironizzava spesso lei stessa).

Esattamente come il De André di Luca Marinelli di un anno fa, la sua interpretazione non è un’imitazione scivolosa ma una re-interpretazione dedita e affettuosa, in grado di sospendere l’incredulità a dispetto degli ovvi limiti vocali. Perché nonostante la Rossi sia un’ottima cantante, il timbro sporco e graffiante della Martini rimane un miraggio inarrivabile, e difficilmente poteva essere altrimenti.

Quello che viene fuori è un ritratto di tristezza e malinconia femminile a tutto tondo, scenograficamente curato, arricchito da ninnoli d’epoca e apparizioni fulminee (tra cui spicca l’ottimo Califano di Edoardo Pesce). Schietto come una confessione postuma e vibrante, con gli occhi lucidi e a cuore aperto, e corredato dal piacere di ritrovarsi intorno a un’emozione condivisa.

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