Mute, un altro disastro sci-fi firmato Netflix: la recensione del film di Duncan Jones

Dopo Bright e The Cloverfield Paradox, la piattaforma streaming conferma di non avere grande fortuna quando si parla di fantascienza. Sarà un caso?

La cosa sconcertante di Mute, se non lo consideriamo semplicemente un film ma individuiamo una categoria specifica che chiamiamo “Film Netflix” (cioè quelli finanziati fin dall’inizio e poi distribuiti sulla piattaforma streaming, non quelli acquisiti, come ad esempio The Cloverfield Paradox), è che sembra una serie televisiva, cioè ha una confezione dozzinale e una scrittura talmente prolissa che pare dover accumulare minutaggio a tutti i costi.

A questo punto l’interrogativo diventa Ted Sarandos, ottimo imprenditore e pessimo produttore, basta vedere la sua scheda su IMDb: tra le altre cose è già responsabile dei film più scadenti di Bong Joon Ho e Duncan Jones – oltre che di una sfilza di stupidaggini con Adam Sandler – e nessuno ha gridato al miracolo per War Machine.

Proprio Duncan Jones, nel frattempo, ha candidamente ammesso che una major hollywoodiana non avrebbe mai investito 20-40 milioni su Mute. Forse – viene da dire – è perché sanno fare il loro lavoro: non si può girare un noir fantascientifico con macchine volanti, un look alla Blade Runner e nomi importanti (qui c’è anche PaulAnt-ManRudd) con 40 milioni, senza farlo sembrare un Altered Carbon qualsiasi; a meno che non si abbiano prodigiose idee di messa in scena, magari minimaliste, e non è questo il caso (lo era in Moon, per restare a Jones). Non è nemmeno un problema di scrittura, è un problema di intenzioni e resa, cioè appunto produttivo.

Questa storia di un barista muto nella Berlino del futuro, che va in cerca della fidanzata misteriosamente scomparsa, diventa così l’ennesimo caso di uno storytelling che mette i piedi in testa alla messa in scena (pensate a Bright), come se il ragionamento sulla serialità avesse tracimato su tutto.

Ci sono due linee dentro il racconto, quella principale e quella di due medici disertori dell’esercito americano che lavorano per la malavita. La suspense consiste nello scoprire dove si toccano, ma quasi tutto il film – tra l’introduzione e il lungo epilogo – è una catena di indizi che spostano il protagonista dentro lo scenario, come il detective di un vecchio hard boiled. È proprio in questa parte centrale che il film perde definitivamente lo spettatore, anche quello ben disposto, fondamentalmente perché non c’è niente da vedere, è un lungo sonno senza sogni. L’idea sci-fi non diventa mai un discorso politico né tanto meno un’iperbole immaginifica, ma si esaurisce tutto in una questione di telefonini, ologrammi e perversioni sessuali: sembra sempre che l’importante stia altrove – ma dove?

Poi ci sarebbe anche la prova mediocre di tutto il cast, in preda a un costante overacting, ma qui tutto l’art department ha responsabilità così macroscopiche – costumi, trucco, parrucco, props, grafiche, non funziona niente di niente – che uscire bene da un film del genere non sarebbe stato facile per nessuno.

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