Nolan, il regista che sa tutto. La recensione di Interstellar

Attenzione: la recensione non contiene veri spoiler, ma rivela vari elementi di trama

Quando si dice che Nolan è un regista ambizioso, si dovrebbero ripensare i termini della questione: non soltanto con Interstellar tenta di spiegare – parafrasando Douglas Adams – “la vita, l’universo e tutto quanto”; vuole pure prendere il miglior cinema di fantascienza degli ultimi 50 anni e mettere ogni singolo puntino su ogni singola “i” rimasta lì, decapitata. Volete sapere chi è il tizio che parla con Jodie Foster sulla spiaggia di Contact? O dove finisce Bowman dopo aver attraversato la Porta delle Stelle in 2001 Odissea nello Spazio? Chiedete a lui. Lui sa tutto.

Futuro prossimo, da qualche parte nel ventunesimo secolo. L’Occidente capitalistico – quindi il mondo intero – è collassato, la società è devoluta, si campa di agricoltura. Le università hanno chiuso e quelle aperte non prendono più nessuno, o quasi: c’è bisogno di agricoltori, non di ingegneri, spiega il preside di un liceo durante un incontro con i genitori. A Cooper (Matthew McConaughey) tutto questo non va giù, e fantastica con il suocero, sotto il portico della sua fattoria, sul destino miserabile delle ambizioni umane: “una volta puntavamo alle stelle, ora ci confondiamo col fango”. E di fango ce n’è in giro parecchio: mentre una misteriosa piaga sta uccidendo uno dopo l’altro ogni genere di coltivazione, mostruose tempeste di sabbia sferzano la superficie terrestre, rendendo l’aria irrespirabile. La salvezza per il genere umano è nello spazio, e passa per un ambizioso progetto della Nasa, che nel frattempo si è rintanata nel sottosuolo in area top secret. Piano A: costruiamo un’astronave gigante e portiamo via tutti i superstiti. Sarebbe la soluzione più auspicabile, ma c’è prima da risolvere un’equazione che occupa 8 lavagne. Piano B: non possiamo salvare i terrestri, ma possiamo ripopolare un altro pianeta usando degli embrioni. Ma quale pianeta? La risposta sta oltre un wormhole, cioè una porta interdimensionale piazzata da un’intelligenza aliena per permetterci di raggiungere 12 nuovi mondi, su cui la vita è ipoteticamente possibile. Cooper parte per lo spazio insieme a 3 colleghi alla ricerca di quello giusto, lasciando a casa due figli senza genitori, perché la moglie è morta anni prima. Inizia il viaggio verso l’ignoto.

Da qui in poi il film procede per lo spettatore su almeno tre binari. Uno, il più affascinante, è lo spaesamento indotto dal modo in cui saltano le coordinate spaziali e temporali. La teoria delle relatività viene chiamata in causa per creare paradossi del senso comune, per cui, ad esempio, capita che sulla superficie di un pianeta il tempo scorra a una velocità completamente diversa dalla stazione orbitante che resta fuori dalla sua atmosfera, e quindi dalla Terra. Allo stesso modo le distanze cosmiche si misurano in mesi, e ogni decisione diventa in sostanza un problema di economia temporale. Il bello, però, è che questo tema viene declinato in modo scientifico ma anche sentimentale, bilanciando le spiegazioni tecniche di ogni snodo (che sono o superficiali, o fumose, come è sempre la matematica al cinema) con il tema della memoria, cioè con le sue conseguenze emotive. Si resta storditi all’interno di un sistema di riferimenti sconvolto, con bellissime idee di messa in scena, scenografiche e musicali (lo spazio è comunque soprattutto il luogo del silenzio).
Il secondo binario è la pura avventura, ovvero lo sviluppo a tappe del viaggio, punteggiato di contrattempi e cambi di prospettiva, che creano la suspense. Anche su questo versante il film funziona, non facendo pesare le quasi tre ore di durata.
Ecco: fino a qui parliamo di Interstellar come opera pop, come blockbuster. Ma Nolan è naturalmente anche un autore, lavora (quasi) con carta bianca per la Warner Bros esattamente come accadeva a Kubrick, e il film non può non essere esaminato anche in questa prospettiva: una space opera che veicola – esplicitamente per giunta – una visione dell’Uomo e del Cinema. E qui arrivano i problemi.

La sceneggiatura è un groviglio sconsiderato di astrofisica (pare che la teoria e la rappresentazione dei buchi neri sia però estremamente attendibile), fisica quantistica (la natura matematica dell’amore e della volontà) e suggestioni poetiche (una composizione di Dylan Thomas sulla ribellione alla morte torna più volte nel film: la prima è usata come voce fuori campo durante un volo spaziale della stazione orbitante guidata da Cooper, un po’ come la musica di Strauss in Kubrick). Il tutto innestato su un dramma familiare, che è in realtà la natura principale della storia: una figlia cerca di capire perché il padre l’abbia abbandonata, per poi scoprire che quell’abbandono potrebbe non essere mai stato tale. E c’è pure la struttura a rompicapo, da sempre la cifra stilistica del regista di Memento, con il film che si chiude su se stesso conferendo significato a tutti gli indizi e gli interrogativi rimasti per strada. Purtroppo quegli interrogativi sono precisamente il fascino del film – anzi, sono il fascino di ogni sci-fi – ed è questo che a Nolan proprio non entra in testa: è più interessante una singola domanda posta da Kubrick, che tutte le sue acrobatiche risposte. Interstellar non conferisce alcun ruolo ai suoi spettatori,  non ammette il dubbio, è un monologo, una dissertazione. Suggestiva e appassionante, ma opinabile e un po’ vacua.

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