Padri e figlie, intervista a Gabriele Muccino: «Il mio film è una bomba emotiva»

Il regista di Sette Anime e L'ultimo bacio racconta le tematiche della sua ultima fatica, dalle chiavi di lettura alle scelte del cast e ci dà anche qualche piccolo dettaglio del suo prossimo progetto, che ha a che fare con una canzone di Jovanotti...

È mattina a San Francisco. Gabriele Muccino si è svegliato da poco, ma gli bastano pochi minuti per accendersi di entusiasmo e cominciare a parlarci, collegato via Skype, del suo ultimo film, Padri e figlie.
L’autore di L’ultimo bacio ha lasciato l’Italia ormai da quasi dieci anni per tentare la fortuna nello star system hollywoodiano. Dopo La ricerca della felicità e Sette anime, entrambi con Will Smith come protagonista, Muccino ha scelto il premio Oscar Russell Crowe e Amanda Seyfried per raccontare la storia di uno scrittore di successo ma incapace di elaborare il trauma della morte della moglie, e di sua figlia, una giovane donna che si affaccia alla vita, piena di dolore ma con un’immensa voglia di amare. Una storia universale, che riguarda tutti nel profondo. Perché, come ci ricorda lo stesso regista, «siamo tutti figli di qualcuno e siamo tutti il risultato delle nostre infanzie».

Best Movie: Padri e figlie è tratto da una bellissima sceneggiatura di Brad Desch. Quali sono le ragioni che ti hanno spinto a farne un film?
Gabriele Muccino: «Sicuramente la tematica, e poi anche per la “stratificazione emotiva” che c’è nella storia. Padri e figlie parla di Kate, il personaggio interpretato da Amanda Seyfried, una donna che da bambina ha sofferto per una separazione, un distacco che nel presente viene vissuto come una difficoltà ad abbracciare la vita. E di conseguenza anche a sperimentare l’amore. Non si tratta di un racconto lineare, ma di un incrocio tra passato e presente, in cui il presente della protagonista è innegabilmente il risultato del suo passato. Noi, in generale, siamo tutti il risultato del nostro passato».

BM: È infatti proprio il rapporto che Kate ha avuto con il padre nell’infanzia a condizionare quello che lei ha con gli uomini da adulta.
«Ma certo, in modo naturale il rapporto tra una figlia e un padre è un legame che definisce la personalità della donna. Kate è talmente impaurita dall’idea dello smarrimento delle persone che ha intorno che non riesce ad amare. Ha il terrore di essere abbandonata e preferisce scappare piuttosto che affrontare le conseguenze dell’amore. Lei cerca un padre che non troverà più, ma questa ricerca non ha soluzione, è una condanna all’infelicità. Si tratta di un personaggio che deve aprire il cuore alla possibilità di vivere la vita con qualcuno che la renderà felice in modo diverso. È un’operazione di grandissimo coraggio e di grandissima speranza».

BM: Di fronte a questo film ogni spettatrice si sentirà inevitabilmente coinvolta.
«Sarà una bomba emotiva molto forte per il pubblico femminile sicuramente, ma anche maschile perché se non sei figlia, sei padre, o comunque siamo tutti figli di qualcuno. Siamo tutti il risultato delle nostre infanzie. È un film che racconta di un padre e di una figlia, ma di fatto racconta la vita».

BM: Il film ha molte chiavi di lettura. Ce le racconti?
«Sì, perché oltre alle sofferenze di Kate, ci sono anche quelle del padre. Jake è uno scrittore, e il film parla delle soddisfazioni e delle delusioni che essere un artista comporta. Poi c’è la storia della sua malattia, una malattia che non riesce a controllare, che limita la sua capacità di vivere e di essere un padre affidabile, ma anche dei suoi tentativi di sconfiggerla».

BM: Anche i problemi finanziari costituiscono un grande impedimento alla serenità familiare.
«La questione finanziaria è centrale nel film. Questo uomo che già soffre per la perdita della moglie, si sente un cattivo padre anche perché non può nemmeno contare sulla forza che il denaro può dare, ovvero non può permettersi la scuola giusta per la figlia, né garantirle le cure necessarie. In America i soldi ti definiscono».

BM: A questo proposito penso agli zii di Kate. Loro sono ricchi e per questo sono convinti di poter garantire una vita migliore alla nipote, anche a costo di togliere la custodia al padre.
«Questo è l’egoismo umano, è una miopia che porta a far corrispondere l’amore al possesso, al controllo grazie all’uso del denaro. La prevaricazione degli zii non è che uno degli istinti più primari della natura umana».

BM: Jake soffre molto anche a causa delle cattive recensioni che il suo lavoro riceve da parte della critica. Cosa pensi del rapporto che un artista ha con la critica?
«Lui è uno scrittore conclamato, ma come tutti gli artisti realizza delle opere che vengono meglio di altre. Le brutte recensioni che riceve soffocano la confidenza in se stesso come autore. Pensa che Cechov, quando ci fu la prima di Il gabbiano, fu fischiato e insultato a tal punto che uscì dal teatro senza cappotto e si ammalò di polmonite. Ogni artista, per definizione, decide di mettere la sua opera e quindi se stesso nella pubblica piazza. Ed è inevitabile che parli male della critica quando viene attaccato, e che al contrario si senta lusingato quando la sua opera viene osannata. Quello con la critica è una specie di conflitto interiore che nessun autore è mai riuscito a districare».

BM: Ci sono delle differenze tra la critica americana e quella italiana?
«Le recensioni americane, anzi direi anglosassoni, sono più precise: parlano poco della trama, e più del valore cinematografico dell’opera. Sono particolarmente tecniche. Quelle italiane invece spesso si limitano a raccontarti la sinossi e a dare un giudizio del film in maniera frettolosa. Ed è un peccato perché la critica, quando è ben fatta, anche se cattiva, aiuta l’autore a capire meglio il proprio lavoro. Può essere uno stimolo. Ma non quando si riduce ad un’assegnazione di stellette, questo è davvero avvilente. Un film è un’opera talmente complessa, che vorresti vedere qualcosa di più, vorresti leggere qualcosa che è frutto di una riflessione più profonda».

BM: In questo film si percepisce molto la tua emotività. C’è molto di te.
«Certo, ho detto io agli attori come muoversi, come piangere, come correre. Sono una sorta di burattinaio e cantastorie che grazie al lavoro degli interpreti mette in scena se stesso. È il modo in cui faccio cinema io, è l’unico modo in cui amo fare cinema. Investo moltissimo della mia sensibilità. I miei film hanno una temperatura emotiva forte perché io sono emotivamente caldo. Sono esattamente lo specchio della mia personalità».

BM: Parlando degli attori, sei stato tu a scegliere il cast?
«Amanda Seyfried sì, è stata la prima che abbiamo chiamato. E lei ci ha suggerito Aaron Paul (che nel film interpreta Cameron, ovvero l’uomo che si innamora di Kate, ndr). Un giorno mi manda un’email in cui scrive “Guarda che Aaron Paul vorrebbe fare il film. Io ci ho lavorato, sarebbe fantastico”. A dire il vero non lo conoscevo molto, per cui mi sono sparato tutta la serie di Breaking Bad, che tra l’altro mi è piaciuta un sacco. Poi ho fatto una lunghissima chiacchierata con lui per capire qualcosa di più sulla sua personalità. Nella vita Aaron è molto diverso da come il pubblico lo ha conosciuto in Breaking Bad, ha un grandissimo cuore ed è un uomo dolce e saggio. Ha delle qualità che sono molto simili a quelle di Cameron»

BM: E gli altri interpreti?
«Il resto del cast ha scelto di recitare in questo film perché ha visto i miei lavori precedenti e perché ha amato la sceneggiatura. Padri e figlie ha l’ambizione, non la presunzione, di dire qualcosa di importante. È uno specchio di molte emotività, di molte difficoltà che si incontrano nelle relazioni umane e nella crescita di noi come individui. Ci parla della forza che dobbiamo trovare quando tutto sembra crollare».

BM: Hai appena concluso le riprese del tuo prossimo film, L’estate addosso. Anche questo si può definire un racconto di formazione e crescita?
«Sì, uscirà tra un anno ed è la storia di quattro adolescenti che sono alla scoperta della vita e durante il corso di un’estate definiscono, o provano a definire, chi saranno. A 18 anni pensi di volere e di essere, ma devi ancora trovare te stesso. In generale, tutti i miei film raccontano di crescita e dei grandi momenti di decisione. Mi interessa il percorso umano e soprattutto le valutazioni che gli uomini fanno di se stessi. In modi diversissimi, tutte i miei lavori esprimono la nostra esigenza di esserci, di emergere, di conoscerci e farci strada nella vita».

L’intervista è pubblicata anche su Best Movie di ottobre, in edicola dal 26 settembre

Foto: 01 distribution

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