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Perdenti ma eroici: Mistress America e il meraviglioso fallimento dei trentenni di oggi. La recensione

Greta Gerwig, anti-eroina sorridente in questa tragedia che chiamiamo vita

Perdenti ma eroici: Mistress America e il meraviglioso fallimento dei trentenni di oggi. La recensione

Greta Gerwig, anti-eroina sorridente in questa tragedia che chiamiamo vita

Il meraviglioso e tragico squilibrio dei trentenni di oggi, alieni e alienati in una metropoli fatta di neon e tante/troppe possibilità, sogni vicini ma lontanissimi, eppure così importanti per mantenersi – si spera – vivi.

Noah Baumbach, già sceneggiatore di Wes Anderson, si ri-conferma cantore della generazione y cresciuta fra Twitter e (inconsapevole?) crisi esistenziale, colta in quel fragile quanto delirante periodo in cui le cose che vogliamo (o che crediamo di volere) sono superiori alle nostre reali possibilità di averle. Come già in Frances Ha, l’autore mescola mood hipster e un certo fare mumblecore: la logorria si adatta al calcolatissimo ritmo, e a risaltare maggiormente sono proprio i dialoghi, sparati a mitragliatrice tra cinismo e inaspettata tenerezza, pronti per essere quotati su Facebook, ad essere trasformati in mantra dai nostri studenti fuori sede che in Greta Gerwig vedranno un’icona da amare e da ripudiare. E a un certo punto, un twist: Baumbach spinge ulteriormente l’acceleratore, trasformando il  film in una pièce teatrale rinchiusa fra quattro mura. I suoi personaggi rimangono sull’orlo del crollo nervoso e dell’assopita ansia, ma la messa in scena è fluida, trasparente.

Mistress America è probabilmente un film troppo hip per piacere alle grandi masse, ma chi lo amerà lo farà in maniera intensa, rapito da questa bellezza deformante del cadere e rialzarsi in loop, come certi cowboy del cinema classico, in perenne inseguimento di quel qualcosa per trovare il proprio posto nel mondo, (in)coscienti, però, che domani bisognerà nuovamente andare via, sempre insoddisfatti ma euforici di vita. Il cinismo di Woody Allen incontra la malinconia di John Hughes, la colonna sonora dream pop si mescola con l’amarezza di Judd Apatow: e ancora una volta, Baumbach riesce a delinearci, con carisma e fascino, un romantico fallimento tanto più straordinario di molte vittorie.

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