Perfetti sconosciuti: una carneficina a colpi di smartphone. La recensione

Una sceneggiatura brillante che guarda al cinema internazionale, un cast corale perfetto dominato da Mastandrea e Giallini e la tecnologia come detonatore sono gli ingredienti alla base della commedia in testa al botteghino italiano

Mira in alto il nuovo film di Paolo Genovese Perfetti sconosciuti, che raccoglie un cast corale – con il meglio del nostro panorama attoriale – e punta al cinema di stampo teatrale, in stile Carnage o à-la-Cena fra amici (successo francese che ha già prodotto un “clone” italiano, Il nome del figlio, e l’emulo Dobbiamo parlare di Sergio Rubini). Come in questi modelli, viene messo in scena un vero e proprio gioco al massacro, avviato da un’apparentemente innocua proposta fatta dalla padrona di casa ai suoi ospiti e amici di lunga data: condividere con gli altri commensali tutti gli sms, le chiamate, le foto, i video, i whatsapp pervenuti sul proprio smartphone.

Quest’ultimo, in questa variante hi-tech del gioco della verità, dimostra la sua dirompente pericolosità, rivelandosi la scatola nera in cui – con leggerezza, incoscienza e un’alzata di spalle alla “così fan tutti” – riponiamo i nostri più inconfessabili segreti. Del resto, chi di noi non ha sentito almeno una volta di un diverbio, un litigio o addirittura un divorzio nato dalla sbirciata di uno dei due partner allo smartphone dell’altro? E lungo questa serata, che ha come spunto un’eclissi lunare da ammirare col telescopio sulla “terrazza” (il referimento a Scola è tutt’altro che velato), si svelerà dunque il “Dark Side of the Moon” che tutti i personaggi nascondono a quelle che dovrebbero essere le persone più intime e vicine della loro vita. Crisi di coppia, tradimenti, sotterfugi, coming out soffocati: tutte le bugie deflagreranno così con tutto il loro carico di dolore nell’arco di quella che doveva essere una rituale cena tra amici, cominciata tra burle, sbeffeggi e scherzi.

Il tono che si respira, infatti, non è melodrammatico o farsesco, ma comico con intelligenza, buone dosi di sarcasmo e affondi dolorosi. Come le ispirazioni straniere a cui ci riferivamo prima, è principalmente un film di scrittura, fatto di dialoghi calibrati, che – a ogni chiamata, messaggino o whatsappata – va a smontare le certezze che ognuno ha sul partner o sugli amici. C’è una cura per la parola e gli incastri, che è il riflesso dell’apporto corale fornito da un team di cinque sceneggiatori (Filippo Bologna, Paolo Costella, Paola Mammini, Rolando Ravello, Genovese compreso) e dai singoli attori, i quali si sono costruiti le battute ad personam. Ed è forse anche questa partecipazione a monte al progetto (oltre all’amicizia tra alcuni membri del cast) ad aver prodotto un’alchimia rara, dove tutti danno il meglio di sé, con Mastandrea e Giallini che troneggiano sugli altri, ma il primo più di tutti grazie a battute affilate come lame («So frocio solo da du ore e già m’è bastato…»). Al loro fianco fanno, comunque, la loro degnissima figura anche Giuseppe Battiston, Anna Foglietta, Edoardo Leo e Alba Rohrwacher, tutti convincenti nei panni di un gruppo di amici persuasi di conoscersi benissimo, per poi comprendere al termine di una serata agghiacciante di essere perfetti sconosciuti.

Se verso la fine la tensione e i segreti messi sul tavolo si fanno forse un po’ eccessivi, va dato atto a Genovese di essere riuscito a servire con equilibrio una dopo l’altra le varie “portate” di questa cena, giungendo a un finale alla Sliding Doors, che svela il doppiofondo dei protagonisti. Un finale per nulla scontato, ma molto amaro, che sottolinea il valore dell’ipocrisia come strumento necessario a difendere la “frangibilità” di tutti. Oscillando tra disincanto e rassegnazione.

 

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