Quello sporco mucchio selvaggio di ribelli. La recensione di Rogue One: A Star Wars Story

Sbarca oggi il primo atteso spin-off della saga di Guerre stellari, quello che deve annodare i fili tra La vendetta dei Sith e Una nuova speranza. Dietro la macchina da presa Gareth Edwards, che ha fatto un lavoro decisamente migliore di Abrams

Il cast di Rogue One: A Star Wars Story

Il primo degli spin-off di Star Wars, quello che deve fare da ponte di collegamento tra Episodio III – La vendetta dei Sith del 2005 e Una nuova speranza del 1977, cambia decisamente rotta rispetto al lavoro di modernariato e riciclo attuato da J.J Abrams con Il risveglio della Forza e forse anche da qui proviene il rifiuto dei titoli di testa a scorrimento canonici (sebbene quelli nuovi siano una debole via di mezzo), quasi una dichiarazione di indipendenza di Gareth Edwards.

Il film infatti nel proporsi di colmare una grave lacuna dell’incipit della trilogia originale, ovvero spiegare perché la più micidiale e potente arma della galassia – La Morte nera – contenga al suo interno una falla, un difetto strutturale sconosciuto ai suoi stessi costruttori, percorre una strada tutta sua, che trasforma Rogue One: A Star Wars Story in un film quasi anarchico e spurio, ma non per questo non rispettoso del culto.

Edwards risponde alla sfida che gli è stata lanciata, raccontando la storia melodrammatica di Galen Erso (Mads Mikkelesen), ingegnere imperiale che si è rifiutato di partecipare alla costruzione della arma definitiva, rifugiandosi con la moglie e la figlia in un pianeta remoto, dove però viene raggiunto dalle truppe imperiali e costretto dall’ambizioso e malvagio Orson Krennic a tornare al suo incarico per completare l’opera lasciata a metà. Galen si trova così costretto ad abbandonare la piccola Jyn e ad affidarla all’amico Saw Gerrera (Forest Whitaker), che la cresce come una figlia. Molti anni dopo il Consiglio dell’Alleanza, venuto a conoscenza dei piani dell’Impero, incarica Cassian Andor (Diego Luna) di sabotare la costruzione della Morte Nera. Cassian, per assolvere la sua missione, dovrà usare proprio Jyn, cresciuta sola e con il dubbio di avere un padre imperialista, per prendere contatti con il dissidente Gerrera e farsi rivelare dove trovare Galen, per impedirgli di portare a termine il suo compito a ogni costo.

Sta proprio nella verità dei personaggi la forza di questo primo spin-off, perché non sono i burattini manovrati da Abrams, ma un mucchio selvaggio e scomposto di loser, personaggi ai margini, irregolari, sporchi e ammaccati dalle battaglie e dai colpi della vita. L’arrabbiatissima Jyn, a cui Felicity Jones presta gli occhi da cerbiatta e la bocca sempre imbronciata, l’ambiguo ribelle Cassian (Diego Luna) che si riscatta lungo la missione, il pilota imperiale disertore Bodhi (Riz Ahmed) che ispira tenerezza, l’affiatata coppia Cirruth e Baze (il primo una specie di monaco zen cieco che crede nella Forza ma non ha imparato a maneggiarla e la sua corpulenta spalla orientale) e il droide K2, che si distingue dall’atteggiamento adulatorio e petulante di C-3PO con sferzate di sarcasmo e pessimismo. Non che manchino le icone della saga, che vengono riesumate e omaggiate come si confà loro, tanto che è incredibile constatare quanto Darth Vader non abbia perso un grammo del suo carisma col passare degli anni, per non parlare delle altre sorprese – figlie di una CGI quasi perfetta – che non vogliamo spoilerarvi e che vi lasceranno a bocca aperta poco prima dei titoli di coda.

Sono molti i riferimenti al cinema western che riecheggiano nel film, ma è soprattutto alla lezione del war movie che Edwards dimostra di essere debitore, creando uno spettacolare film di guerra con richiami ai classici da La battaglia di Algeri a I cannoni di Navarone, e con combattimenti a terra e corpo a corpo che rievocano lo Sbarco in Normandia. Ma il film si fa spettacolare a livello visivo non solo nelle scene di guerra: nessun regista di Star Wars ci ha mai condotto per la galassia solcando di traverso anelli satellitari o ha mai descritto i vari pianeti attraverso cui i nostri antieroi viaggiano con lo stesso amore e lo stesso timore reverenziale per il paesaggio (lo stesso mostrato in Godzilla) di Edwards, che sa giostrare bene situazioni intime e scene maestose come la deflagrazione di una città antica, mescolando l’immaginario da guerra atomica a quello violento proveniente dal Medio Oriente contemporaneo.

Non è un film perfetto, ma sicuramente un ottimo lavoro, forse uno dei migliori dai tempi de Il ritorno dello Jedi (soprattutto se siete di quelli che non hanno apprezzato Minaccia fantasma & Co.), anche se gli mancano il pathos e il senso di mistero che hanno dettato il successo della saga. Anche perché quell’indipendenza rivendicata da Edwards di cui parlavamo all’inizio è in fondo illusoria. Compresso com’è dalla necessità di annodare le estremità libere del franchise e con di fronte un futuro che conosciamo benissimo, ha infatti, pochi margini di movimento a livello di narrazione e di colpi di scena. E, nonostante questi limiti, vi lascerà soddisfatti sia per la spettacolarità a livello visivo sia perché Rogue One è più di qualsiasi altro film della saga stellare un film corale e sul sacrificio, in quanto in modo più eloquente di altri racconta di come la Resistenza sia un lavoro di squadra e di come gli obiettivi di alcuni grandi eroi siano stati raggiunti grazie ai sacrifici di molti i cui nomi verranno dimenticati.

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