Qui non molla nessuno: Banderas, Snipes e Gibson irresistibili ne I Mercenari 3. La recensione

Le tre new entry fanno la differenza in questo terzo capitolo della Saga, in cui l'attore australiano è un magnifico villain

I mercenari sono rimasti appena in 5, e hanno bisogno di forze fresche: quando la CIA (con il volto di Harrison Ford, che prende il posto dell’esoso Bruce Willis) li mette sulle tracce del trafficante d’armi Stonebanks (Mel Gibson), Barney Ross (Stallone) decide così di pensionare i vecchi compagni e reclutare una nuova squadra, tutta Under 30. Non dureranno a lungo, senza l’aiuto dei vecchi teschi…

Cinema di resistenza biologica, di corpi massacrati di palestra, aghi e fisioterapia; di capelli tinti, anelli che pesano un chilo, denti lucidi, brutti tatuaggi (veri e finti). È sempre più una lotta alla gravità e alla fisiologia la carriera di Stallone, che continua imperterrito a programmare e girare film d’azione, spingendo la frontiera anagrafica del genere ogni volta più in là; sfidando l’occhio dello spettatore a capire dove inizia la fine, dove gli attori lasciano spazio alle controfigure e la finzione al corso logico dell’esistenza, alla ritirata, alla pensione di un immaginario.

Il bello de I Merceneri 3, molto più del numero 2 – il meno riuscito della serie – è che di nuovo quella fine è ben camuffata, senza imbarazzo. In questo il film è già una spanna sopra a Il grande match, più vicino alle intenzioni di Escape Plan e The Last Stand, e comunque meglio riuscito – più misurato (eccezion fatta per l’interminabile battaglia finale nell’immaginaria Repubblica d’Azmenistan) – di entrambi.
Contribuiscono al risultato soprattutto le new entry Wesley Snipes e Antonio Banderas, perfettamente integrati allo spirito dell’operazione, con il loro bagaglio di memorie condivise con Sly: vecchie scappatelle nella brutta sci-fi (Demolition Man) e nel brutto thriller (Assassins) degli anni ’90, roba che comunque non smettiamo di rimpiangere. E poi Mel Gibson che – simpatico o meno – è un attore vero, volto e voce scavati dagli anni e dal cinema, ormai per cruda virilità paragonabile solo a Sean Penn. Un cattivo fatto di cliché (ex Mercenario tradito dal suo Governo che a sua volta decide di tradire i compagni e mettersi in proprio), come d’altra parte tutto il resto, eppure capace di farne uso creativo.

Proprio in questo I Mercenari 3 trova la sua dimensione e il suo buon esito, nella consapevolezza contemporanea del valore dei cliché, nella capacità di maneggiarli senza imbarazzi o seconde letture, senza cinismo. Nella serenità finalmente acquisita – e non scontata – con cui le maschere degli eroi fuori tempo massimo non vengono più irrise per pudore intellettuale, ma strette al cuore.
E pensando che già nel 1990, cioè 25 anni fa, Stallone accettava di abdicare in Rocky 5 al giovane Tommy Morrison/Gunn (disgraziatamente scomparso lo scorso anno), si comprendono le dimensioni di questo lunghissimo congedo, che – oggi lo sappiamo – non è mai stato un passaggio di consegne, ma una storia come un’altra, ormai un genere.

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