Revenant, l’occhio di Dio: il film premio Oscar secondo Roberto Recchioni

Raccontare è sempre una questione di sguardo. Quello di Iñárritu, nel western con Leonardo DiCaprio, coincide con il punto di vista di un fantasma, che si muove imperturbabile tra i protagonisti

Dallo scorso febbraio, Roberto Recchioni (fumettista e romanziere, oltre che curatore di Dylan Dog per la Sergio Bonelli Editore) firma su Best Movie A scena aperta, rubrica in cui svela i segreti delle scene più belle dei film disponibili in home video.

Quando uno scrittore si appresta a scrivere un nuovo romanzo o racconto, dopo aver deciso cosa raccontare, deve decidere secondo quale punto di vista farlo. In questa fase, le sue scelte sono limitate. C’è la narrazione in prima persona, quella in seconda (piuttosto sporadica nella narrativa moderna) e infine quella in terza, che si divide sostanzialmente in due sottocategorie: il narratore limitato o soggettivo (che pone il lettore nei panni di un osservatore esterno che segue il protagonista o i protagonisti con uno sguardo esterno, ma non conosce più di quello che conoscono loro) o quello onniscente, ovvero il punto di vista di chi tutto vede e tutto sa. In pratica, l’occhio di Dio. In narrativa, l’uso del narratore onniscente è stato molto comune fino ai primi anni del XX secolo per poi diventare sempre meno praticato, a causa del forte distacco che crea tra il lettore e il raccontato. Questo tipo di categorizzazioni si declinano in ambito cinematografico con maggiore difficoltà, specie se andiamo ad analizzare la cosa dal punto di vista registico.

Prendiamo il caso di Revenant – Redivivo di Alejandro González Iñárritu, per esempio. Considerando lo script, la narrazione è sicuramente in terza persona soggettiva. Vediamo le vicende del protagonista dall’esterno ma non sappiamo nulla di più di lui. In termini di racconto visivo, invece, la faccenda si fa più complicata. Il film si apre con una breve sequenza onirica che, in parte, rimanda a quanto fatto da Scott su Il Gladiatore. Il protagonista della storia sogna (immagine 1 della gallery in fondo) e ricorda la sua famiglia brutalmente uccisa (immagine 2). L’attimo dopo siamo nel tempo narrativo presente, in quella che sembra la soggettiva di qualcuno che cammina nel letto di un fiume, in mezzo al bosco. In realtà, la camera è tenuta troppo bassa per essere davvero il punto di vista di un essere umano. Lentamente,  mentre continuiamo ad avanzare, dalla quinta a destra entra in campo un fucile a canna lunga e l’uomo che lo tiene tra le mani (immagine 3). Poi stessa cosa, ma da sinistra (immagine 4). La camera si alza e i due, che ci hanno superato, ora occupano il centro della scena (immagine 5). Li vediamo da dietro, come fossimo il terzo elemento del gruppo, alle loro spalle. Ed è qui che Iñárritu mescola le carte in tavola, perché seguendo lo sguardo di uno dei due, sposta l’obiettivo leggermente verso destra (immagine 6), finendo per mostrarci il protagonista della storia – quello che, fino a questo momento, credevamo fosse l’uomo attraverso i cui occhi osservavamo la scena (immagine 7). Ora Iñárritu comincia a svelare le sue intenzioni, perché nonostante prima ci abbia suggerito di essere nella soggettiva di qualcuno, adesso ci tiene molto a far capire con chiarezza che sulla scena ci sono solo tre persone, tre cacciatori, che si stanno apprestando a far fuoco sulla loro preda (immagine 8). E che noi non siamo uno di loro. Del resto, doveva essere chiaro sin dall’inizio, perché il movimento iniziale della camera è stato sempre fluidissimo e assolutamente artefatto, per nulla simile a quel dondolante e traballante procedere di un essere umano che film come Salvate il soldato Ryan ci hanno raccontato così bene.

Ma allora, se non siamo uno dei cacciatori, chi siamo? Verrebbe quasi da pensare che Iñárritu stia tentando una mossa alla Terrence Malick, ovvero di calarci nei panni della Natura. Ma non è così. Perché il nostro privilegiato punto di osservazione non è mai complessivo. Siamo in mezzo agli alberi, ma non abbiamo mai visto i nostri protagonisti dall’alto. Siamo troppo bassi, troppo calati all’interno dello scenario, per essere lo scenario stesso. E allora capiamo: la nostra soggettiva è la soggettiva di un fantasma. Di uno spirito che si muove liberamente, sollevato dal fardello del peso corporeo e dei limiti fisici dello spazio. Siamo invisibili, intangibili e capaci di movimenti impossibili. Il nostro occhio è l’occhio del dio di questo universo narrativo. L’occhio di Iñárritu. Questa brevissima scena iniziale è il momento in cui il regista setta tutto il tono narrativo del fi lm e ci fa intuire (magari a livello non cosciente) sotto quale ottica verrà raccontata la storia. Il resto della pellicola andrà avanti attenendosi in maniera quasi maniacale a questa regola, calandoci in mezzo alla violenza, non facendoci mai coinvolgere però dalle miserie umane. Se è vero (e io credo che lo sia) che la forma è il contenuto, possiamo dire che Revenant – Redivivo è un film che non parla della vendetta di un uomo, quanto, piuttosto, dell’elegante indifferenza di Dio. E sotto questo punto di vista, è una grande pellicola.

 

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