Robert Zemeckis: «Il segreto di un buon film? Ve lo spiego io»

È uno dei più grandi registi pop degli ultimi 30 anni, e ha attraversato con successo tanti generi, dalla fantascienza al survival movie, fino al thriller. Stavolta, con Allied - un’ombra nascosta, ci prova con il war movie e due divi fuori scala. La nostra chiacchierata con Robert Zemeckis

Se esistesse un club composto dai registi che ormai possono permettersi di fare qualsiasi cosa, Robert Zemeckis ne farebbe parte, insieme a Spielberg e pochissimi altri. Perché di uno che ha girato Ritorno al futuro, Chi ha incastrato Roger Rabbit e Cast Away, ti fidi a priori. Ed è proprio la sua firma, assieme ai protagonisti-superstar Brad Pitt e Marion Cotillard, il motivo principale di interesse di un film che si appresta a rinverdire i fasti del grande cinema romantico a sfondo bellico, un filone che ha come pellicola simbolo Casablanca. Proprio in quella città inizia Allied – Un’ombra nascosta, storia d’amore tra due spie sotto copertura, durante la Seconda guerra mondiale. Due spie che dovranno districarsi tra l’amore per il proprio Paese e quello per il proprio compagno, cercando di sciogliere i dubbi enormi che un mestiere come quello, in un periodo come quello, porta con sé.

Comincerei chiedendole perché crede che in America si continui ad avere questa immagine romantica della Seconda guerra mondiale.
«È molto strano. Io sono nato subito dopo, eppure la Seconda guerra mondiale ha svolto un ruolo cruciale nella mia educazione: è un evento che in America ha sempre avuto un grande valore culturale. Sono cresciuto con i film e gli show televisivi su quel periodo, quindi è un fatto storico ben presente nella coscienza della mia generazione. È qualcosa con cui sono diventato grande. È tutto molto chiaro in quel conflitto, non ci sono ambiguità morali. Inoltre ha tirato fuori gli Stati Uniti dalla Grande Depressione rendendoci il Paese più ricco al mondo».

Che cosa ha imparato sulla guerra dai suoi genitori?
«Probabilmente i due eventi che hanno segnato più profondamente la mia famiglia sono stati proprio la Grande Depressione e la Seconda guerra mondiale. Mio zio venne ferito nella battaglia di Saint -Lô, così quando nacqui mi raccontarono che il primo pensiero fu di grande felicità, ma il secondo di grande preoccupazione, perché mia madre aveva paura che anche io sarei potuto finito al fronte. Era qualcosa di radicato nella coscienza delle persone. Quindi la mia fu un’infanzia tormentata da questi due mostri: la guerra e la depressione. Consideri che sono cresciuto in una delle zone più floride degli Usa, nel South Side di Chicago, e anche lì la gente aveva il terrore di trovarsi i nazisti fuori dalla porta di casa. Questa paura penso arrivasse direttamente da mia madre, Rose Nespeca, nata in Italia, mentre mio padre Alfonso è lituano. I miei genitori avevano radici europee e questo contribuiva al fatto che fossero sempre preoccupati e attenti a quello che accadeva. Quindi, alla fine, ho amato l’idea di poter fare un film con uniformi tedesche, veicoli, armi e tutte le cose che avevo visto da piccolo».

Si è ispirato a Casablanca, visto che anche il suo film inizia in quella città?
«È una domanda interessante, perché c’era solo un modo di portare sullo schermo Casablanca. È il luogo dove si svolge la prima scena del film che per ovvie ragioni doveva essere ambientata proprio in quella città, perché ai tempi era il centro delle colonie francesi in Nord Africa, con un’influenza molto glamour sulla cultura d’Oltralpe. Ma non c’è stata una vera volontà di citare un grande classico, non si tratta di un omaggio».

Ci sono altri film sulla Seconda guerra mondiale oppure altre love story classiche degli anni ’40 che l’hanno influenzata?
«La risposta più onesta che posso dare è che non ho imposto uno stile coscientemente basato su altri film. Sono stato ispirato dalla sceneggiatura, che ha un radicale stile romantico, e quando hai tra le mani una storia così potente, con così tanti twist emozionali e colpi di scena, ti si spalancano immense opportunità. Questo tipo di racconti sono perfetti per un regista come me, perché mi piace coinvolgere profondamente il pubblico e utilizzo tutto ciò che ho a disposizione per farlo. Lo stile stesso deriva proprio dal periodo in cui si svolge la vicenda: ovviamente non sarebbe naturale avere dei tagli frenetici e molta camera a mano per raccontare questa storia, perché è tutta incentrata sui personaggi».

Nel corso della sua carriera ha avuto a che fare con produzioni in 3D come The Walk, con l’animazione in Chi ha incastrato Roger Rabbit, con la fantascienza in Ritorno al futuro. Che sfida è stata questa volta con un war movie?
«La sfida tecnologica per un film ambientato nel passato è principalmente quella di rappresentarlo in maniera corretta. Abbiamo realizzato Allied a Londra, quindi avevamo pure a disposizione l’Imperial War Museum come supporto tecnico per tutte le informazioni: il personale del museo era molto soddisfatto di come il film prendeva forma e di come erano stati allestiti i set. Una cosa interessante di quel periodo è che fumavano tutti! Poi ho amato il fatto che la sceneggiatura sia riuscita a descrivere perfettamente gli effetti che il conflitto aveva su Londra. La città veniva bombardata di notte, ma nonostante questo la gente andava avanti a vivere la propria quotidianità. Questo è un particolare che ho voluto sottolineare: era un mondo in cui la macchina della guerra era sempre in sottofondo e molte volte protagonista, ma in cui le persone continuavano a vivere in maniera ancora più piena, perché realizzavano che la loro esistenza sarebbe potuta finire da un momento all’altro. E questo è verissimo anche per i protagonisti Max e Marianne, con il loro amore che si sviluppa nel pericolo, anche quando si sposano».

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Foto: ©GK Films/Huahua Media/Paramount Pictures

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