Rosso Istanbul, il ritorno di Ozpetek in Turchia. La recensione

Ferzan Ozpetek torna a girare in Turchia diciotto anni dopo Harem Stare. Il risultato è il suo film forse più sentito e autobiografico, tratto dal suo romanzo omonimo del 2013

Orhan Sahin, scrittore ed editore residente a Londra ma originario di Istanbul, torna nella propria città natale dopo una lunga diaspora che l’ha tenuto lontano dalla patria per vent’anni. A causa di un trauma affondato nel suo passato e di un esilio volontario, Orhan ha perso completamente il contatto con la sua terra e il senso delle proprie radici. Il suo rientro gli offre l’occasione di aiutare l’amico regista Deniz a completare il suo romanzo. Non potrà, per forza di cose, rimanere indifferente ai luoghi e ai sentimenti ai quali rimane legato, nonostante tutto, da un vincolo inscindibile.

Il regista turco Ferzan Ozpetek torna a girare a Istanbul diciotto anni dopo la sua opera seconda Harem Suare e il suo nuovo film si configura fin da subito come un oggetto dal sapore affettivo e metacinematografico al massimo grado, che mescola in maniera fluida e organica passato e presente, parola scritta (Rosso Istanbul è ispirato più che tratto da un romanzo pubblicato dallo stesso Ozpetek nel 2013) e immagini filmate, in un’intersezione che il cinema dell’autore non aveva ancora esplorato. Un vero e proprio dispositivo delle emozioni e della memoria, che si muove tenue e in punta di piedi su spazi già conosciuti, palpiti già sentiti, porzioni di vita già esperite.

Rispetto ai suoi ultimi lavori, più sbalestrati verso la lente deformante del melodramma o addirittura della seduta spiritica, questo ritorno così personale e privato di Ozpetek dietro la macchina da presa fa propria una dose maggiore di rigidità e di compostezza rispetto al materiale narrativo e agli echi autobiografici che il progetto pare accogliere dentro di sé da ogni angolazione possibile. Il tono del film è infatti insolitamente freddo per un’opera che porta la firma del regista turco, ben lontano, a questo giro, da qualsiasi eccesso mélo e dalla tentazione della sporcatura sensazionalistica. I colori si fondono in maniera fervida e contrastata, dando peso alla rievocazione e ai punti d’intersezione tra cielo e mare sul Bosforo, a cominciare proprio dal rosso del titolo (una sfumatura paesaggistica irripetibile, ma anche, chiaramente, una condizione dell’anima). Ma è un rosso tutt’altro che urlato, la cui patina levigata tradisce una volontà di controllo, di ripensamento ragionato di sé, della propria vita passata e di sicuro anche dalla propria opera.

Tornando a sciacquare i panni a Istanbul e giunto ormai alla soglia del suo undicesimo film, dedicato, proprio come il romanzo da cui è ispirato, alla madre, Ozpetek ritrova così una confezione elegante, dove le tensioni della Turchia contemporanea vengono ovviamente tagliate fuori per lasciar posto a interni altoborghesi e a volti dalle identità forti, da sempre cari al cinema tutt’altro che normalizzato e al ribasso del regista, come la restauratrice Neval e l’ombroso Yusuf.

Il rischio di tale immersione nelle pieghe di ciò che ci si è lasciati alle spalle, condotta in maniera così consapevole e meditata, è però quello di una freddezza di ritorno, che in più di un’occasione si impadronisce del film e lo schiaccia verso esiti più patinati del previsto, rendendolo un po’ paludato e sfilacciato e con meno forza emotiva all’attivo di quella che si sarebbe potuta sprigionare (un po’ come in alcuni, ultimi film di Pedro Almodóvar). Il doppiaggio, in tal senso, non aiuta e amplifica lo spaesamento. Rimane però la sensazione di una palingenesi chiarificatrice nel cinema del regista, dalla quale si può solo che ripartire.

© RIPRODUZIONE RISERVATA