The Neon Demon, Roberto Recchioni e l’ossessione per la bellezza di Refn

Analisi di una scena simbolo del film del regista danese, da sempre schiavo dell'estetica e delle donne

Da febbraio 2016, Roberto Recchioni (fumettista e romanziere, oltre che curatore di Dylan Dog per la Sergio Bonelli Editore) firma su Best Movie A scena aperta, rubrica in cui svela i segreti delle scene più belle dei film disponibili in home video.

La materia non definisce le cose, è la forma a farlo. Il marmo di una statua non è la statua stessa. Solo l’atto, il divenire, ha la capacità di tramutare la sostanza in forma. Ma ogni atto successivo, tramuterà di nuovo la forma in sostanza, e poi di nuovo in forma, alla ricerca di quell’atto puro che sarà Dio.

A Nicolas Winding Refn la sostanza interessa poco perché per lui non sembra esserci differenza nel portare sullo schermo lo script di un crime movie di serie B, la storia di un vichingo con un occhio solo, o la biografia del più temuto criminale d’Inghilterra. No, quello che sembra stargli davvero a cuore è il fare in modo che il suo atto, cioè la sua capacità trasformativa, possa prendere la materia inane della sceneggiatura e darle una forma che unisca significato e significante.

In poche parole, a Refn frega che i suoi film siano molto fighi a vedersi.

Nel caso di The Neon Demon la sostanza è rappresentata da uno script mediocre ma pretenzioso, tutto infarcito di significati profondi che però restano a galla come le buste di plastica sulle onde del mare. La storia è quella di una virginea anima candida che finisce in un mondo che, dietro a una bellezza artefatta, cela un cuore putrido. La purezza della protagonista le attirerà di volta in volta l’ammirazione estatica, il desiderio, l’invidia e infine l’odio omicida. E poi ci sono le vampire-lesbiche mangiatrici di carne umana che inondano il pavimento di sangue mestruale ululando alla luna crescente…

Refn, forte della sua convinzione di essere il redentore del cinema mondiale e di poter compiere miracoli, prende questo materiale a dir poco discutibile e prova a celebrare di nuovo le nozze di Cana, tramutando l’acqua in vino. Ci riesce? In parte sì e in parte no. A tratti la sua perfezione formale basta a redimere la sceneggiatura di ogni eccesso e a darle tutto il corpo che le manca, altre volte non ci riesce, e i limiti vengono fuori tutti. Un risultato che non fa di Refn il nuovo Gesù, ma che perlomeno lo qualifica come uno dei miei santi preferiti.

Tra le molte scene esteticamente perfette del film, quella che personalmente ho amato di più si svolge nello studio fotografico del personaggio interpretato da Desmond Harrington (immagine 1 nella gallery in fondo) dove una Elle Fanning a disagio viene introdotta al mondo patinato delle riviste di moda (immagine 2). La sequenza è costruita attraverso un progressivo disgregamento della scenografia e dello spazio prospettico. Gli elementi di scena vengono esclusi dall’inquadratura, lasciandoci in un infinito bianco che tutto appiattisce. Elle a questo punto è solo una piccola figura bianca definita dall’oro dei suoi capelli e del make-up (immagine 3). Poi lo sfondo dal bianco assoluto passa a un nero altrettanto assoluto (immagine 4) ed entra in scena anche Desmond (nero pure lui). L’uomo si mette alle spalle della ragazza e inizia a dipingerle il corpo d’oro (immagine 5). La camera indugia sui gesti, alludendo a una tensione erotica evidente che però non esplode mai. Desmond non vuole scopare Elle, vuole venerarla (immagine 6). Lei è una bellezza pura, incontaminata nel senso più profondo del termine. Qualsiasi artificio non farebbe altro che inquinarla. È per questo che Desmond, che capisce il potenziale della ragazza al primo sguardo, si limita a spogliarla di tutto quello che non è essenziale e poi la tratta come materia preziosa, da far brillare attraverso il suo atto creativo. Il personaggio in questione è l’unico che nel corso di tutto il film non cercherà mai di approfittarsi di Elle e non tradirà mai la sua fiducia.

Perché Desmond è Refn, ed Elle è il cinema.

 

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