Una fiaba nera inquietante e mostruosa: la recensione di La cura dal benessere

Gore Verbinski torna al genere che gli aveva dato gloria col remake americano di The Ring e gira un inquietante horror ambientato in una spa svizzera e con un Dane DeHaan luciferino come non mai

Dane DeHaan in La cura dal benessere

Il giovane e ambizioso Lockhart (Dane DeHaan), venditore di successo per conto di una gigantesca compagnia americana che opera a Wall Street, viene spedito sulle Alpi Svizzere, più precisamente in una spa, per riportare in America Roland Pembroke, CEO dell’azienza per cui lavora: un uomo anziano che si è smarrito in quei luoghi e sembra non aver più intenzione di tornare indietro, per riallacciarsi alla vita e al lavoro di prima. Il posto nasconde tuttavia dei segreti oscuri e inconfessabili capaci di far rizzare i peli sulla nuca, e anche il benessere tanto sbandierato non pare essere il fine ultimo della struttura e soprattutto di coloro che la dirigono…

Gore Verbinski, dopo il colossale flop di The Lone Ranger, progetto sfasato e senz’anima con un Johnny Depp ai minimi storici, ha deciso di tornare sui suoi passi e cimentarsi nuovamente con l’horror. Un genere che in passato lo aveva visto mettersi in evidenza con l’iconico remake americano di The Ring, capace di replicare il peso dell’immaginario proposto dal film giapponese e di elevarlo a potenza con spietata e rinnovata angoscia. Niente di meglio di un altro horror, dunque, con un budget più modesto (“solo” 40 milioni di euro) e una dose maggiore di autonomia creativa per tentare di ritrovare se stesso dopo uno schiaffo piuttosto doloroso, specie per un cineasta abituato ai fasti commerciali della saga dei Pirati dei Caraibi.

L’ambizione che si respira ne La cura dal benessere e la convinzione dei propri mezzi con cui Verbinski l’ha realizzato, sotto l’egida produttiva della 20th Century Fox, son senz’altro elevate e non indifferenti, pur rientrando in una cornice da horror di serie B gonfiato e sotto steroidi. Il film si concentra su uno spunto molto d’attualità negli ultimi anni, le celeberrime e ormai proverbiali spa svizzere, per tingere un universo geografico e culturale così ovattato e sulla carta idilliaco di tonalità mostruose e deformi, disturbanti e mai rassicuranti. La perizia della messa in scena di Verbinski, senz’altro zelante e appassionata nell’accumulo di suggestioni, specie nella prima mezz’ora, cavalca tale paradosso, cortocircuitando e concentrandosi sulle mille possibili declinazioni luciferine del volto di Dane DeHaan, un attore perfettamente in parte nei panni dell’ambiguo e serpentesco protagonista.

Verbinski maneggia il gotico e la fiaba nera invadendole di perversioni multiformi e associazioni visive elementari e sconcertanti, che si susseguono in maniera ripetitiva e talvolta stucchevole ma anche ispirata e ostinata. Tra deviazioni cervellotiche e masturbatorie ed elementi animaleschi che accompagnano la fusione indiscriminata di realtà e incubo, il trip di Verbinski sconfina in un finale virtuosistico e quasi depalmiano che tradisce la natura ludica e sregolata dell’operazione, nonché la sua salutare assenza di freni inibitori. Consona, di sicuro, a consentire al regista di procedere a briglia sciolta, giocando al rialzo con lo spettatore ma senza pretenziosità alcuna.

Verbinski insiste sull’acqua come esca mortifera e letale, simbolo matriarcale e uterino, da Sigmund Freud a Virginia Woolf, e dunque anche massima incarnazione metaforica di una natura matrigna che stritola il libero arbitrio e fa emergere ricordi primordiali tutt’altro che tenui e benefici, a prescindere dai percorsi di benessere e dalle risoluzioni terapeutiche vere o presunte. La cura dal benessere dopotutto, nella sua onesta e piuttosto lampante elementarità, nonostante il dedalo di spunti immaginifici, è un film essenzialmente di MacGuffin ed escamotage naïf, perfino nell’asse narrativo principale (il ritrovamento di Pembroke).

La parte meno riuscita dell’onesto e godibile lavoro di Verbinski, che cita allegramente Kubrick, Argento e svariati altri registi, è quella in cui Lockhart e il fragilissimo, struggente personaggio femminile interpretato da Mia Goth si avventurano nel mondo di fuori, un villaggio alle pendici della spa abitato da uomini ributtanti e bidimensionali, nevrotici ma anche brutti, sporchi e cattivi, che non amplificano la dimensione paranoica del film ma la disinnescano, prolungando un po’ a vanvera la durata già di suo eccessiva dell’operazione. Molto meglio, invece, gli slanci di lirismo e forza pittorica che accompagnano il finale perfino nei singoli dettagli, barocchi e grotteschi, di scenografia, per non parlare di quel bellissimo tema musicale argentiano, simile a un lugubre carillon impostato in loop, a cullare lo spettatore mentre le immagini lo sbalestrano di qua e di là.

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