Venezia 72: la storia dietro il film. Parlano i veri protagonisti della tragedia di Everest

La vedova di Rob Hall e Helen Wilton ci raccontano come hanno vissuto quelle ore di puro terrore

Era il 1991 quando Robert Hall – arrampicatore esperto da poco riuscito nella formidabile impresa di scalare le Seven Summits (le sette cime più alte di ogni continente) – decise di fondare la Adventure Consultants, una società di guide d’alta montagna che avrebbe portato i suoi clienti sulla cima del mondo: l’Everest.
In pochi anni Rob riuscì a portare sulla cima ben 39 persone (numero formidabile per quei tempi) aumentando fama e conto in banca. Purtroppo, però, a farcelo ricordare non sono i suoi successi, ma bensì la disastrosa spedizione del 10 maggio 1996, nella quale persero la vita ben 7 persone. Oltre a Rob stesso.

Everest, il film di Baltasar Kormákur che ha aperto il Festival di Venezia, racconta proprio di quel terribile giorno.

Quando il gruppo di Rob Hall e quello di Scott Fischer (fondatore della Mountain Madness di Seattle) partirono inisieme per raggiungere il tetto del mondo, era una bella mattina di sole e niente faceva presagire la tragedia che stava per compiersi. I problemi, però, iniziarono presto: l’affollamento – 16 clienti e 6 guide -, la scarsa preparazione di alcuni scalatori, i fraintendimenti tra gli sherpa (popolazione indigena, una sorta di guida locale, che accompagna da sempre le scalate), provocarono un enorme ingorgo nei pressi del passaggio più delicato, l’Hillary step. Questo fece ritardare di alcune ore la discesa di una gran parte del gruppo, che fu sorpreso da una durissima – e letale – tempesta.

«Di quella terribile notte non ho voluto parlare per anni» racconta Helen Wilton il fulcro della Adventure Consultant: la coordinatrice della logistica e direttrice del Campo Base.

L’abbiamo incontrata al Marriot – un hotel extralusso di Venezia –  in compagnia della vedova Jan Hall.

«Troppo dolore, troppa sofferenza, e le conversazioni via radio tra e me e Rob, nelle sue ultime ore di vita, erano troppo personali per condividerle con il mondo».

Affianco a lei Jan, la moglie di Rob, annuisce: «Mi riuscirono a mettere in comunicazione con lui accostando la radio al telefono sattellitare. Un prodigio per l’epoca. E così ho potuto dire addio a mio marito, e pian piano abituarmi all’idea che non sarebbe mai più tornato».
«Il mio Rob era un uomo meravigliso – continua – aveva fede nelle cose, ispirava le persone; per questo era così bravo, perchè gli dava la forza per andare avanti.
Io quel giorno ero a casa, incinta, e lui era sulla cima della montagna più alta, con delle condizioni meteo terribili; era come se si trovasse sulla Luna. E ricordo di aver pensato: “l’ipotermia non è poi un modo così terribile per morire”».

Ma oggi?

Oggi salire sul monte Everest è un business da milioni di dollari l’anno.

A raccontarcelo sono gli Sherpa che hanno preso parte alle riprese del film, accompagnati da David Breashears, scalatore e filmaker; il primo a girare un film IMAX sull’ Everest.
«Chiunque può salire sulla vetta, le strade sono sicure, le corde sempre fissate, i sentieri sempre gli stessi, è impossibile perdersi o trovare intoppi, tanto che nei periodi di “attacco alla vetta” 100 – 150 persone partono tutte insieme».

Quanto costa? Non poco: per gli scalatori più esperti, che salgono in gruppo, e non hanno bisogno di attenzioni particolari il prezzo è di 25.000 dollari. Ne pagano tra i 35.000 e i 50.000 quegli scalatori esperti che però necessitano di più attenzione da parte delle guide e vogliono avere a disposizione più bombole di ossigeno (considerate che a quell’altezza, senza ossigeno, il corpo inizia letteralmente a morire). Poi ci sono persone disposte a sborsare più di 75.000 dollari: si tratta di spedizioni individuali, con uno sherpa che vi accompagna passo-passo.

«Io ho assistito clienti di tutti i tipi – racconta Ang Phulaprovenienti da tutte le parti del mondo. Ad alcuni ho dovuto addirittura infilare i guanti. Ma ci divertiamo, guadagniamo bene e possiamo mandare a scuola i nostri figli. Con la speranza che facciano qualcosa di diverso».

Ce lo dice a bassa voce, con un inglese chiaro ma dal forte accento, mentre continua, timidamente, a sorridere.

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