Vox Lux

La storia di una popstar nata sulla coda mediatica di una terribile strage scolastica. Un film ambizioso e predicatorio, ma in definitiva superficiale e moralistico. E Natalie Portman non è mai stata così sotto tono

PANORAMICA
Regia (3)
Interpretazioni (2)
Sceneggiatura (1.5)
Fotografia (4)
Montaggio (2.5)
Colonna sonora (2)

È un peccato. Dopo l’esordio con L’infanzia di un capo e i due premi a Orizzonti nel 2015, Brady Corbet era sulla lista dei più promettenti esordienti in circolazione, invece questo Vox Lux è una delle più violente forme di egocentrismo autoriale che sia passato per i Festival maggiori negli ultimi anni.

La storia è quella di Celeste (Raffey Cassidy), una popstar nata sulla coda di una strage scolastica: la ragazza si salva e durante una cerimonia di commemorazione delle vittime sfoggia una voce da usignolo, cantando in diretta nazionale. È ancora una ragazzina ma arrivano già i primi contratti discografici.
Diciassette anni dopo, alla vigilia di un enorme concerto americano, una gang di pazzi – mascherati come in un suo celebre video -, fa fuoco sui bagnanti di una spiaggia della Croazia. Celeste (ora interpretata da Natalie Portman in versione Anna Oxa) deve salire sul palco la sera stessa e passa la giornata assumendo droghe e litigando con tutti: dai giornalisti all’agente (Jude Law), passando per la sorella (Stacey Martin) e la figlia (interpretata ancora dalla Cassidy).

Qui i problemi sono due: lo sviluppo della sceneggiatura è a tesi e superficiale. In compenso la regia è sovraccarica: pellicola al posto del digitale, i titoli di coda al posto di quelli di testa, un uso scriteriatamente espressivo della colonna sonora, luci naturali, didascalie vintage… Di rado abbiamo visto una disparità così chiara tra la misura del testo e quella delle forme, moralismo elementare (la nascita di una “leader” attraverso i traumi di una nazione, dentro il linguaggio dello showbusiness) e impeto wagneriano nella messa in scena.

In sostanza con alla base un discorso molto simile a quello di L’infanzia di un capo (che speriamo a questo punto non resti l’archetipo di tutti i titoli a venire), Corbet smette di alludere e comincia a predicare. Toglie gli spazi interpretativi, risolve l’enigma e gonfia il proprio ruolo fino a invadere il quadro: pare un prestigiatore da quattro soldi che lancia carte, fiori e conigli per aria senza preoccuparsi della scaletta, mentre la gente in sala sbadiglia.

Arriviamo a dire: se deve essere il palco di un concerto pop a filtrare questa idea d’America, allora è meglio Five Foot Two, il doc su Lady Gaga.
Ma tutto sommato pure A Star is Born.

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