Bad Boys for Life, la recensione

A quasi vent'anni dal secondo capitolo, Will Smith e Martin Lawrence tornano a interpretare la coppia di poliziotti teste calde lanciata da Michael Bay negli anni Novanta. Funzionano ancora? Oh, sì.

Will Smith e Martin Lawrence in Bad Boys 3
PANORAMICA
Regia (3.5)
Interpretazioni (3.5)
Sceneggiatura (2.5)
Fotografia (3.5)
Montaggio (3.5)
Colonna sonora (3)

C’è un po’ di Micheal Bay in questo terzo capitolo di Bad Boys, che arriva in sala 17 anni dopo la seconda parte e addirittura a 25 dalla prima. Bay non dirige più, non ha nemmeno un ruolo produttivo, ma evidentemente è ancora legato al franchise e ai suoi protagonisti: compare in un cameo come maestro di cerimonie al matrimonio della figlia di Marcus, una scena diciamo “intima” che pare abbia anche diretto (non ci sono esplosioni ma si vede). A parte questo però è proprio dal confronto tra Bad Boys for Life e i film che oggi Bay dirige, cioè 6 Underground, che nascono le considerazioni più interessanti.

Bad Boys 3 mostra una evidente continuità estetica con i primi due capitoli, un po’ come accadrebbe con le puntate di mezzo di una serie televisiva nei confronti del pilot, e tuttavia è ormai lontano dal posto in cui il cinema di Bay nel frattempo si è spinto. L’azione ha infatti ancora un ruolo narrativo, pur nel contesto di una narrazione molto stereotipata: occupa una posizione dentro un contesto più ampio, non lo esaurisce e non lo sostituisce. In 6 Underground si è invece compiuto un passaggio ulteriore, l’azione eccede un racconto definitivamente caricaturale per diventare astratta: non mette in rilievo i personaggi, piuttosto li usa come vettori dinamici, non diversamente dai mezzi o dalle armi, depotenziandone le battute e azzerandone la coolness.
Questo si intende quando si dice che Bay è un autore.

Scegliendo di restare dieci passi dietro al suo demiurgo, il nuovo Bad Boys resuscita di conseguenza il buddy action movie anni Novanta e i suoi meccanismi, investendo su una dimensione più “divistica” e character driven, alla Arma letale.
Ecco allora i detective Mike Lowrey (Will Smith) e Marcus Barnett (Martin Lawrence), ancora fedeli ai propri calchi: testa calda e restìo ad abbandonare la strada il primo, questa volta obiettivo di una spietata famiglia messicana; ansioso di andare in pensione e godersi il nipotino il secondo.

L’alchimia tra Smith e Lawrence, sempre più distanti – soprattutto fisicamente -, è sempre ottima e il dispositivo comico del film funziona che è un piacere. La trama come detto è un canovaccio collaudato al servizio dell’iconografia della coppia di protagonisti, così la sfida mortale che una misteriosa sacerdotessa e suo figlio lanciano a Lowrey serve sostanzialmente a creare un background più ricco al personaggio di Will Smith (non specifico per non spoilerare) e a mettere le basi per qualche altro sequel.
Intorno ai due, una squadra di poliziotti multirazziale e multigenere, che onora le solite incombenze del politicamente corretto e garantisce a tutti gli interpreti un contratto per una manciata di film.

Piccola nota di demerito per il terzo atto, teoricamente ambientato in Messico ma in realtà quasi tutto esaurito in interni e in studio: al di là delle spaccature logiche e dei soliti bruschi voltafaccia che in un film così sono quasi doverosi, la ricostruzione scenografica è un po’ sciatta e pare di stare dentro l’attrazione di un parco a tema.
Grande nota di merito invece per gli inseguimenti automobilistici, tra i migliori visti negli ultimi anni al cinema: lontano dai parossismi di F&F, cioè come a restituire al genere una dimensione più ragionevole, direi quasi classica.

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