Big Eyes: la recensione di Sparky97

“L’arte è personale”.

All’apparenza l’ultima opera di Tim Burton non sembra nemmeno opera sua. Piuttosto di un David O. Russell, per esempio, o addirittura di un Wes Anderson, in certi punti. Ma se indirizziamo lo sguardo al cuore di questo film, allora scopriamo che nessun altro se non Tim Burton avrebbe mai potuto girare Big Eyes.

Un film patinato, solare, per nulla grottesco, non troppo eccentrico. Strani aggettivi da usare per un film di Burton, eppure è così. Il regista di Edward Mani di Forbice, Dark Shadows e Sweeney Todd si allontana dal dark e dal grottesco, per una volta, riuscendo – forse – a far felici anche coloro che non si dicono suoi fan.

Per quello che riguarda il “contorno”, prima di entrare in altro tipo di dettagli, inizio col dire che Amy Adams è superba, e io non sono assolutamente un suo fan (nemmeno in American Hustle mi aveva convinto!), ma qui riesce a rendere perfettamente tutte le emozioni di Margaret tramite quei suoi splendidi occhi cristallini. Christoph Waltz, invece, funziona ma resta troppo confinato nel suo essere – ormai – una macchietta di stampo quasi “Tarantinano” anche in altre vesti. Molto bello il finale con le rapide inquadrature in primo piano di tutti i comprimari, come tasselli di un mosaico visti da vicino, un po’ come accadeva nel finale de Il Curioso Caso di Benjamin Button o di Big Fish. Ho apprezzato molto anche la colonna sonora, senza dubbio parte integrante del film, come sempre ad opera di Danny Elfman, e la canzone omonima di Lana Del Rey che accompagna una delle scene più spiccatamente Burtoniane e toccanti del film.

Molte critiche hanno definito Big Eyes come il film di Burton probabilmente più vicino a Big Fish. Concordo assolutamente, sebbene definirei anche Frankenweenie come molto vicino a Big Fish, in un certo senso.
Questi tre titoli hanno in comune un aspetto: tutti e tre sono autobiografici, il sunto dell’autore stesso.

Con Big Fish Burton tesseva la più alta lode possibile all’immaginazione, alla fantasia. Lo faceva tramite luci, ombre, personaggi stravaganti e altri più quotidiani, ma soprattutto lo faceva tramite le emozioni. Le sue, quelle dei personaggi in scena e quelle degli spettatori; Big Fish tocca delle corde dell’animo come pochi film sanno fare, e la cosa più stravagante è che nemmeno lo spettatore ne conosce precisamente il motivo. Oltre a questo, Big Fish era costruito con la tipica messa in scena Burtoniana.

Frankenweenie, opera precedente a quella di cui si sta trattando, esplorava il passato dell’autore: il protagonista, Victor, non era nient’altri che Burton stesso. Esplorava la sua infanzia, di bambino incompreso e solo in un mondo di mostri e creatività, ma anche circondato da tanto amore nella sua cara Burbank. Per quanto riguarda la forma e il soggetto, Burton ha rielaborato il cortometraggio omonimo del 1982, uno dei suoi primi lavori, che era per l’appunto in bianco e nero, e come doppiatori ha scelto attori che avevano collaborato con lui nei suoi primi anni a Hollywood (in Beetlejuice ad esempio, o in Ed Wood). Per di più, Frankenweenie è l’unico film in cui l’autore cita tutti i suoi film precedenti.

Per chiudere il cerchio, torniamo a Big Eyes. Il film chiude questa “trilogia ideale”, in quanto rappresenta non solo la vita della pittrice preferita di Burton (che per lui ha ritratto anche l’ex-compagna Helena Bonham Carter), ma un vero e proprio inno all’arte stessa. “L’arte è personale” dice Margaret all’ottuso marito Walter Keane, cercando di spiegargli questa che cosa sia. Ogni opera è parte dell’autore, non può essere svenduta come se niente fosse, non può essere trattata superficialmente, ma può essere venduta per 1$ invece di 2, questo sì. È più importante guadagnare tanto da un singolo quadro, o far felice il bambino che si è ritratti, guadagnando la metà? È più importante far felice il bambino, sostiene Margaret e con lei Burton, e allora anche un singolo dollaro può essere accettato.
Questa è la vera morale di Big Eyes: l’arte è personale ed è frutto di ciò che si è, non può essere “ceduta”, né trattata superficialmente, è frutto di un’ispirazione e merita rispetto. Una cosa non è bella perché è famosa, come diceva la citazione di Warhol che apre il film, ma è bella – se piace – per quello che è, “perché emoziona”, come diceva giustamente Margaret.

Big Eyes è, semplicemente, un’aperta dichiarazione di poetica da parte dello stesso autore: non importa che i suoi film sbanchino o meno il botteghino, i suoi film a lui piacciono e sono fatti per un motivo, ogni film è una parte di lui, e crea emozioni. Ecco perché non potrebbe essere un film di O. Russell o di Anderson, questa è una morale tipicamente Burtoniana.

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