Café Society: la recensione di Mauro Lanari

Fra il romanticismo e il nichilismo irrazionali degl’ultimi 3 film, Allen recupera un equilibrio umorale che lo riconsegna alla sua agrodolce ambivalenza. Nel tripudio critico per la classicità riconquistata (un comfort da poetica dell’eterno ritorno, punto fermo nei marasmi della vita cinematografica e non), le sparute stroncature di chi non sottoscrive quest’ottuagenaria arrendevolezza: “Allen par’aver rinunciato su praticamente tutt’i fronti. S’è arreso ai venti dominanti unendosi al novero del socialmente conformista e soddisfatto di sé.” Ossia piac’e non piace per lo stesso motivo: “per l’immaginario rassicurante, in cui ci si sente com’a casa”. Guai a esigere altro, soprattutto in momenti storici come l’attuale. “Quarantasettesimo film firmato da Woody Allen, e non dite che fa sempre lo stesso film”. “Remake d’un remake d’un remake dove cambia solo la location o gl’attori, ma i discorsi, il sarcasmo e l’ironia sono sempre gli stessi e sugli stessi argomenti”. “C’è molto poco di memorabile nei personaggi e negl’eventi di ‘Cafè Society’, […] eppure l’atmosfera data dalle luci sempre cangianti di Storaro, il soffice mond’al tramonto in cui sembrano sempre muoversi e quel senso di malinconia infuso dalla mess’in scena sono realmente indimenticabili”. “Cinema come manovra di stile – di scrittura, di fotografia, di recitazione, di taglio e cucito – che non risolve nulla ma mette di buon umore, coinvolge con levità, è divertente, a tratti con vero pathos e vera bellezza. Non sembra un’ottima scelta per chi ha pretese ipercritiche, lo è per frequentar’un mondo e un autore che si ama poiché non ha idee al di fuori del proprio immaginario”. Godibile se ci s’accontenta, noiosamente ripetitivo per i pochi ch’ancora osano pretendere di più, di meglio, di nuovo.

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