Cinquanta sfumature di nero

La trasgressione “alla vaniglia”. È questo l’obiettivo che dal suo approdo in libreria si è sempre proposto il franchise Cinquanta sfumature. Spinto da un marketing che promette arditezze ed evoluzioni acrobatiche da Kamasutra tra le lenzuola, non è altro che sesso alla missionaria con l’aggiunta di qualche gadget mai veramente pericoloso. Altro che bondage, sadomaso, dominatori/sottomesse, fisting e così via, 50 sfumature sta a 9 settimane 1/2 come il Burlesque a un vero e proprio strip-tease. E il secondo film tratto dalla serie letteraria di E.L. James mantiene e, anzi, accentua questa vocazione di puritanesimo travestito. Le spettatrici di questi film (davvero difficile incontrare un rappresentante del sesso maschile alle proiezioni), solitamente comprese nel range tra i 20 e i 50 anni, inorridirebbero e sarebbero disturbate dalle atmosfere torbide di Un ultimo tango a Parigi o di Intimacy; quel che si aspettano non è che un’esplosione di romanticismo resa più pepata da qualche innocente giochino a letto, non fatevi strane idee.

Fanno male gli uomini a disertarli, perché potrebbero imparare molto e prendere appunti. Il pubblico di 50 sfumature o di Twilight se ne infischia consapevolmente dei livelli sommi di sospensione dell’incredulità a cui va incontro (un vampiro che si innamora di un’unica umana in 100 anni ed è disposto a starle vicino nonostante l’irrefrenabile sete di sangue che lei gli procura, una sfigatella vergine innamorata dei romanzi ottocenteschi che fa letteralmente impazzire un bel miliardario sadomasochista che potrebbe avere qualunque donna ai suoi piedi nella red room…). Sottesi a questi intrecci che sfidano qualsiasi logica o regola drammaturgica, ci sono desideri e archetipi radicatissimi nell’inconscio femminile. In primis, la solita favola della Cenerentola sciatta e imbranata a livelli improponibili che col suo candore fa breccia nel cuore dell’inarrivabile principe azzurro (e che ha determinato il successo planetario e – pare inestinguibile – di film come Pretty Woman e Dirty Dancing); in secondo luogo il primordiale istinto da crocerossina a cui pochissime sono immuni, e infine il bisogno di ogni donna di sentirsi unica, indispensabile e speciale (nel film un’ex sottomessa ora stalker disperata di Christian dice ad Ana: “Cos’hai tu che io non ho?”) . L’idea che un sociopatico come Christian Grey, segnato da un fortissimo trauma infantile, possa essere salvato dall’amore per una ragazza normalissima e trasformarsi per lei in uno zerbino, convertendosi da sottomettitore a sottomesso, manda letteralmente in visibilio le inguaribili romantiche.

50 sfumature di nero è l’apoteosi dell’”Io ti salverò”. Avevamo lasciato Anastasia alla fine di 50 sfumature di grigio turbata non tanto dalle sei frustate inflittele da Christian, ma dal godimento che lui mostrava di trarne. Una rivelazione shock (ma quel contratto in 45 punti su tutte le possibili pratiche sadomaso che lui avrebbe potuto applicarle non avrebbe dovuto metterla in guardia?), che l’aveva spinta a troncare la relazione definitivamente. Sapete quanto resiste la perentoria Ana lontana da Christian? Provate a indovinare. Lui le manda delle rose all’inizio e lei non ha il coraggio di buttarle, poi basta che lui acquisti 6 gigantografie che ritraggono la ragazza firmate dall’amico fotografo José per accettare un invito a cena e riprendere in breve tempo l’idillio con lui.

In tutto cinque giorni: volontà d’acciaio, questa Ana. Battute a parte, la ragazza cede perché si è resa conto che in quei cinque giorni lui è cambiato, ha capito di non poter vivere senza di lei ed è disposto a rinunciare a fruste e gatti a nove code pur di vederla felice. Se l’amore fosse un Teorema (Marco Ferradini docet), Cinquanta sfumature di nero suonerebbe più o meno così: “Prendi una donna, trattala male.. cerca di essere un tenero amante, ma fuori dal letto nessuna pietà… Ma anche: dalle il meglio del meglio che hai, sii sempre presente, risolvile i guai (e già che ci sei regalale un MacBook Pro)”.

Messe da parte le analisi sociologiche semiserie e l’ironia e tornando al cinema, il vero problema del secondo film della saga è l’essere un episodio di raccordo tra il primo e il terzo, senza particolari picchi e twist. Tra i due non emergono i conflitti presenti nelle Sfumature di grigio, il brivido della contrattazione, la scoperta di un mondo ad Ana completamente sconosciuto; la coppia fila d’amore e d’accordo per tutto il film e la presenza di terzi incomodi non provoca folli scenate di gelosia, litigi o triangoli amorosi. Il film avrebbe potuto osare qualcosa in più rispetto al romanzo, che ha dalla sua il forte vantaggio di essere un diario di vicende ed emozioni, una sorta di monologo interiore di Ana. Senza quel “voice over” che commenta le situazioni, la descrizione del ritrovato amore tra i due fila via un po’ troppo liscia. Si sarebbe potuto dare più spazio ai cosiddetti “villain”: infatti, la scena più sapida è quella in cui la protagonista si prende la sua rivincita sulla rivale Mrs. Robinson (Kim Basinger), l’iniziatrice al sadomaso di Christian.

James Foley dirige con mano sicura, seguendo il percorso tracciato da Sam Taylor-Johnson, proponendo un’estetica – e un tappeto musicale – che è un mix tra i serial di Shonda Rhimes e le pellicole patinate anni ’80 (leggi soprattutto Adrien Lyne), ma non introduce variazioni di rilievo rispetto al romanzo, per non urtare la suscettibilità del fandom che per brand come questo è sovrano incontrastato. Tutte le considerazioni fatte fin qui vengono confermate dall’entusiasmo dell’esercito delle lettrici della saga, che conoscono a memoria le battute del libro ed esultano ad ogni passaggio della resa incondizionata di Christian nei confronti di Anastasia, la quale è riuscita a fare di un bad boy, un tossicodipendente del sadomaso convinto di avere 50 sfumature di tenebra dentro, un bravo ragazzo da sposare. Vittoria!!!

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