Classe Z: la recensione di Mauro Lanari

Seguo Guido Chiesa da quando pubblicava su Rockerilla, anni pre ’90 e pre-scission’editoriale con Rumore, e non mi sono mai trovato d’accordo con lui. Ora st’applicand’una strategia di furbo conformismo coi suoi nuov’interlocutori, la generazione dei nativi digitali, adottandone le stesse modalità mediatiche. Ma questa generazione comunica? Ohilà che sorpresa. Pensavo sapesse sol’esprimersi egoticamente.M’anche se Chiesa riusciss’a instaurare un dialogo con loro, cos’avrebbe da dirgli? Sbaglio o uno dei protagonist’indossa una t-shirt dei Sonic Youth? Quand’i Nirvana esplosero, fu l’unico dell’intero staff redazionale della rivista a stroncarl’in nome dell’ideologia da “working class hero” del Boss e dei riff e del songwriting ben più complessi dei suddetti epigoni di Glenn Branca. Non una parola sul fatto che la deriva pop di Cobain & co. venn’imposta dalla Geffen e dal produttore Butch Vig, il batterista dei Garbage. Potrei proseguire articolo dop’articolo e film dopo film. Circa “Classe Z”, prendere la demitizzazione de “L’attimo fuggente” com’un “segno di ripudio della saccente arroganza da idealista cinefilo ch’è in lui” (Alò) mi pare a dir poco esagerato. Ridimensionare Weir è un atto intellettuale dovuto, non di coraggio. Il resto potete visionarlo in una puntata qualsiasi di “Colorado Cafè”.

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