Django Unchained: la recensione di Marita Toniolo

Django Unchained è un distillato purissimo di Quentin Tarantino. Un omaggio a uno dei suoi generi preferiti, lo spaghetti western alla Corbucci e Leone, mixato a una buona dose di black exploitation e condito dai monologhi “acrobatici” che sono da sempre il tratto saliente della sua scrittura (prima-ti-parlo-per-un’ora-poi ti-faccio-fuori). Il secondo film della sua (promessa, ma non ancora certa) trilogia della vendetta, iniziata con Bastardi senza gloria, è una festa pirotecnica di grande cinema in cui lui si diverte così tanto da concedersi anche il lusso di un cameo.

Ora: quando al cinema approda un film di Tarantino è sempre la solita storia: da una parte quelli che sono stufi del suo manierismo, registico e di scrittura, e dall’altro chi si gode la festa. E questa è l’unica strada che con Django ha senso imboccare: quasi tre ore di grandissimo cinema, una cavalcata inarrestabile ritmata da colpi di frusta, spari di pistola e botti di dinamite, ma non priva di spunti di riflessione importanti. Dopo “aver fatto il mazzo” ai nazisti in Bastardi senza gloria, questa volta Quentin “si diverte” a mettere i conti in pari con le cicatrici della storia americana massacrando i negrieri sudisti, eliminando sistematicamente nel pubblico ogni stilla di senso di colpa nel desiderare che vengano fatti fuori senza pietà uno dopo l’altro. Uno spettacolo cruento che gli è costato un vietato ai minori di 17 anni negli Usa, ma che scatenerà l’entusiamo degli amanti delle punte estreme del suo stile.

La storia ci conduce nel Texas del 1858, due anni prima della Guerra civile, dove Django (Jamie Foxx) è uno schiavo con la schiena sfregiata dalle frustate e una piccola R marchiata sulla guancia (la R di Runaway, ovvero fuggitivo) che sfila incatenato con altri schiavi come lui. Il suo inaspettato destino è quello di imbattersi in un bizzarro ex dentista di origine tedesca (Christoph Waltz) reinventatosi cacciatore di taglie, che prima lo libera con metodi poco ortodossi e poi con il suo eloquio forbito gli propone un gentlemen agreement: Django lo aiuterà a riconoscere e uccidere i famigerati Brittle Brothers (su cui grava una taglia pesante) e lui in cambio lo porterà a recuperare l’amata moglie, Broomhilda (Kerry Washington), prigioniera e schiava sessuale nella famigerata Candyland, la piantagione dello spietato Monsieur Calvin Candie, alias Leo DiCaprio.

L’epopea di Django risulta così suddivisa in tre parti, corrispondenti ai tre atti del film: nella prima parte il vero protagonista della storia è più il dottor King Shultz di Waltz, come il colonnello Hans Landa di Inglorious Basterds dotato di un’ironia sottile e raffinata, ma questa volta buono, generoso e tanto coraggioso da gettarsi in una missione quasi suicida; nella seconda l’ingresso del latifondista DiCaprio, sadico e spietato come mai l’abbiamo visto, ruba la scena, trasformando il film in un viaggio alle radici del razzismo sudista (e qui le punte comiche e insieme feroci raggiunte dal personaggio di Samuel L. Jackson, vecchio e fedele servitore di Candle, più razzista del peggiore dei bianchi, raggiungono vette sublimi); nella terza e conclusiva la violenza fin lì compressa nel cuore e nei muscoli di Django deflagra, in una tempesta di pallottole e fontane di sangue, secondo il solito paradigma tarantiniano di una violenza grafica, sfacciata, catartica. Il viaggio si compie, e la Storia ritrova il suo ordine etico nel Cinema, secondo un intento morale che erà già in Bastardi senza gloria. A questa parata di attori sopraffini va aggiunto il nostro Franco Nero, per quell’omaggio al Django di Corbucci (la cui D è muta, come sottolinea ironicamente il protagonista), atteso quanto riuscito.

Qualcuno, specie negli States, si è risentito per il tono “scanzonato” di molte scene (Spike Lee si è lamentato a priori), ma Tarantino non agisce certo a caso e sapendo di toccare un tema delicatissimo sposa da subito un registro fortemente grottesco, dando ai personaggi un’impronta caricaturale che serve a sottolineare l’assurdità quasi surreale della violenza schiavista (la scena con il Ku Klux Klan è l’esempio perfetto). Quentin fa insomma centro anche questa volta, inglobando nel suo racconto strumenti di tortura disgustosi, categorie professionali desolanti (“mandingo lottatore”, “schiavo da casa”, “negriero”, e così via), lezioni di frenologia pseudoscentifiche che purtroppo hanno origini storiche reali (lo studio della personalità umana attraverso l’analisi delle fossette nelle ossa del cranio), punizioni esemplari di efferata crudeltà: un campionario di idiozie da brivido che alimentano uno sfrenato desiderio di vendetta. Che Tarantino non esita a soddisfare, trasformando la storia di uno schiavo nero in un’epopea: un nobile Sigfrido che scalando montagne e sfidando draghi, riconquista la sua Brunilde. Solo il suo straordinario talento drammaturgico avrebbe potuto fondere così mirabilmente una storia di schiavi allo spaghetti western, mixandolo con un epico romanticismo ben reso da un tappeto sonoro straordinario che mescola l’hip hop all’immancabile Morricone (con la voce della nostra Elisa). E così è stato.

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Mi piace: il mix ineccepibile di generi e toni. Il cast sublime.

Non mi piace: un certo sbilanciamento degli equilibri tra i personaggi

Consigliato a chi: a chi ama Tarantino e il grande cinema

VOTO: 5/5

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