End of Justice: Nessuno è innocente

Denzel Washington è un trascinante avvocato afroamericano nel nuovo film di Dan Gilroy, già regista dell'ottimo Nightcrawler - Lo sciacallo con Jake Gyllenhaal

End of Justice: Nessuno è innocente, la recensione

 

Roman (Denzel Washington) è un avvocato di Los Angeles che lavora in uno studio che difende clienti poco abbienti, che il più delle volte non possono permettersi economicamente una difesa degna di nota. Roman ha un carattere insofferente e scorbutico, puntiglioso ma anche appassionato: non si trattiene mai al cospetto di nessuna ingiustizia, ci mette un attimo a scattare quando vede negati i suoi ideali e i diritti degli altri, ma un’azione illegale finirà fatalmente col tentarlo…

Opera seconda di Dan Gilroy, figlio del drammaturgo da Pulitzer Frank, fratello di Tony (Michael Clayton, The Bourne Legacy) e fratello gemello del montatore John, End of Justice: Nessuno è innocente arriva a quattro anni di distanza da Nightcrawler – Lo sciacallo con Jake Gyllenhaal, viaggio losangelino al termine della notte sulle nevrosi oblique e inquietanti di un videoreporter, ed è la conferma piuttosto cristallina del talento di un autorevole sceneggiatore anche dietro la macchina da presa.

Ancora un personaggio affascinante ma sgradevole, ancora un uomo schiavo delle proprie ossessioni, raccontato con il nervosismo un po’ démodé di un cinema che guarda di petto alla lezione civile degli anni settanta. Un film morale a tutti gli effetti, con un protagonista afroamericano, nerd della giurisprudenza, tutt’altro che simpatico e rassicurante, con capello cotonato e spazio in mezzo ai denti, interpretato da un Denzel Washington nominato all’Oscar e alla sua miglior interpretazione da molto tempo a questa parte.

Vibrante e trascinante quando c’è bisogno di esserlo, ma anche insicuro, fanciullesco e imbranato nei sentimenti, quasi sempre complessato e succube di dissidi interiori quasi spirituali, intricatissimi e anche un po’ indisponenti: tutto questo è il protagonista Roman J. Israel, Esq., diviso tra Legge e Ordine.

Un idealista con la mente affollata di cose pratiche, con tutto il disagio che da questo conflitto può scaturire. Un po’ come il John Turturro avvocato dello strepitoso serial The Night Of, perché mantenere idee contrastanti nella propria testa può richiedere uno sforzo disumano, come insegnava quella bellissima miniserie di Steven Zaillian di due anni fa.

Ma End of Justice, oltre ad essere un film scritto divinamente e con una sceneggiatura a orologeria, è anche un’incursione nella pancia del sistema giudiziario aggrovigliato e insondabile di Los Angeles, città che Dan Gilroy conosce molto bene e che per la seconda volta si mostra in grado di raccontare a tutti gli effetti come un sottobosco elettrico, sempre sul punto di esplodere, quasi mai accogliente.

Nella seconda parte il film prova a cambiare pelle, a sperimentare una metamorfosi, a esplodere di pari passo con l’abisso che sperimenta Roman, mettendosi, anche letteralmente, in viaggio. Qualcosa di smarrisce, qualcos’altro si conquista. Contro le class action, il razzismo istituzionale, le forze dominanti.

Il primo blocco, invece, è quello che affronta più di petto l’attualità: la perdita del lavoro, lo scontro frontale con l’avvocato ricco e ambizioso interpretato da Colin Farrell, i tanti nodi di uno script pensato al millimetro, che riflette sul rapporto tra utile e capitale, tra le cause per le quali vale la pena lottare e il doversi, contemporaneamente, sporcare sempre le mani, con tutto e a prescindere da tutto.

End of Justice è un film che parla di purezza che non può sopravvivere al mondo, di attivismo e diritti civili, è un trattato sull’azione legale come ultimo e più alto fondamento possibile dell’attivismo moderno, ma anche un film di umanità e di debolezze, da perdonarsi vicendevolmente: due mantra coi quali fare drammaticamente i conti, soprattutto in un tempo che da un lato ci vorrebbe tutti ugualmente solidi, granitici, incorruttibili, ma che dall’altro non fa che coccolare diabolicamente incertezza e precarietà.

Mi piace: la sceneggiatura perfetta e appassionante del film, il suo saper parlare con semplicità ma anche con toni sfaccettati di attivismo e diritti civili nell’America di oggi

Non mi piace: il secondo blocco del film, forse più azzardato, viscerale e meno pensato del primo

Consigliato a: chi ama un cinema di parola ad alto tasso di retorica individuale e civile, magari con un personaggio centrale molto forte, ancor meglio se incarnato da un attore strepitoso come Denzel Washington, che ogni tanto si ricorda ancora di esserlo

 Voto: 3/5

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