Fahrenheit 11/9

La lettera d'odio di Michael Moore a Donald Trump: una tappa obbligata della carriera del documentarista americano, che non poteva non arrivare

Fahrenheit 11/9 di Michael Moore
PANORAMICA
Regia (3)
Fotografia (2)
Montaggio (4.5)
Colonna sonora (3.5)

Come diavolo è successo? Come è potuto accadere? Come ha fatto Donald Trump a diventare il 45esimo Presidente degli Stati Uniti d’America, partendo da sfavorito e con la stragrande maggioranza dei media che gli ridevano dietro, considerandolo poco più di un pagliaccio momentaneamente prestato alla politica?

È questa la domanda – grezza, semplicissima, necessaria – da cui è partito Michael Moore, senza ombra di dubbio il più famoso documentarista del pianeta, per il suo ultimo film, Fahrenheit 11/9, che ribalta provocatoriamente il titolo del suo film più celebre, Fahrenheit 9/11, atto d’accusa all’amministrazione Bush che gli valse la Palma d’oro a Cannes nel 2004 e un successo commerciale macroscopico e mai visto prima per il genere.

Moore, grazie al suo cinema, è diventato una personalità politica a tutto tondo: un comunicatore energico e influente, indubbiamente narciso e egoriferito. I suoi lavori lo dimostrano e le voci critiche contro di lui non sono mai mancate, come quella di Christopher Hitchens, un grande, acutissimo intellettuale americano che ci manca molto, ma le sue idee di sinistra sono rimaste radicali ed estreme, senza ritorno e ostili al compromesso.

Una parola che ritorna, quest’ultima, nella sua ultima fatica, quasi fosse il cancro da estirpare, il demone sotto la pelle che ha portato le persone che si ritengono non di destra a cambiarla, quella pelle. A cercare di assomigliare al nemico fino a rimanere impigliati nella rete delle sue seduzioni. Un incantesimo che ha permesso a Trump, magnate pieno di magagne e affari loschi ed ex star di un reality show, The Apprentice, di approdare alla Casa Bianca.

La sua voce, in questi tempi di crisi d’identità e snaturamento totale e indiscriminato della Sinistra in tutto il mondo occidentale, è un invito, tutt’ora selvaggio come sfrontato e radicale è da sempre il suo stile, al vigore dell’azione. Alla presa di posizione contro l’idiozia, la bruttura, l’oscenità di un potere privo di decenza, impegnato soltanto a magnificare l’efficacia del proprio genio comunicativo (che tale monito si propaghi come un virus benefico e anti-Trump fino ad arrivare alle elezioni di midterm?).

L’Election Day del 9 novembre 2016, forse la notte più buia dell’intera storia dei democratici americani, è messo in scena da Moore nel prologo del film come la parodia esplosiva di un’opera lirica: un momento di cinema angosciante e, nonostante tutto, tremendamente divertente, con addosso quell’ironia acida e velenosa che Moore sa imprimere anche alle sue scelte più goliardiche.

Ma Trump, a conti fatti, è il pretesto per parlare di tanto altro, uno specchietto per le allodole: le connivenze dei media coi poteri forti, lo scandalo dell’acqua inquinata di piombo a Flint, in Michigan (di dove Moore stesso è originario), i drammi degli insegnanti sottopagati della West Virginia, simbolo di un’istruzione precaria e vessata, la circolazioni delle armi tra i giovanissimi, e si potrebbe continuare, perché quando il focus si sposta sui democratici se Atene piange Sparta non ride (la rivelazione sulle primarie democratiche e su come Hillary Clinton è stata preferita a Bernie Sanders, per esempio, è da brividi…).

A The Donald non è risparmiato davvero nulla, perfino la sua passione sessuale (parole sue) per le grazie della figlia Ivanka è impietosamente enfatizzata, ma e emergere a chiare lettere, al di là della tendenza di Moore a esagerare con le coloriture personalistiche e gli sberleffi plateali, è sopratutto la sincera e allarmante disperazione del regista per le sorti del suo paese.

Un sentimento che contribuisce a fare fare di Fahrenheit 11/9 un documentario non nuovo né innovativo nella galassia Moore ma rovente e militante, al termine del quale non resta sbarrare gli occhi e accettare che Trump è la tempesta, e che la tempesta è tutt’altro che passata.

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