Grandi bugie tra amici, la recensione

Nove anni dopo Piccole bugie tra amici torna la commedia corale con dentro il meglio dello star system francese contemporaneo

Grandi bugie tra amici
PANORAMICA
Regia (2)
Interpretazioni (3)
Sceneggiatura (2)
Montaggio (2.5)
Direzione della fotografia (2)
Colonna sonora (2)

Sfiancato dalle scadenze e da una situazione economica assai poco rosea, Max (François Cluzet) si trasferisce nella sua casa al mare per riflettere. Lì, senza preavviso, lo raggiunge il suo gruppo di amici storici, che non vede da oltre 3 anni, per festeggiare il suo compleanno: complicazioni in agguato.

Nove anni dopo Piccole bugie tra amici, film francese più visto in patria nel 2010, ritroviamo i protagonisti della versione transalpina de Il grande freddo direttada Guillaume Canet, volto del cinema francese che di tanto in tanto si dà da fare anche come regista, pur rimanendo un volto imprescindibile per la cinematografia del suo paese (tra le sue ultime prove il thriller Mio figlio, 7 uomini a mollo di Gilles Lelouche, impegnato qui come attore, e Il gioco delle coppie di Olivier Assayas).

Grandi bugie tra amici, sequel dell’originale, riprende gli stessi personaggi la stessa orchestra attoriale di amici e colleghi, ma anche la compagna di vita Marion Cotillard, riponendone le nevrosi e i palpiti, i sentimenti ammaccati dallo scorrere del tempo, il senso di vanità e la precarietà dilagante. L’immaturità di fondo è però più più strillata, con sbandamenti melodrammatici non sempre convincenti e un continuo ricorso a hit musicali che trasformano il film in una sarabanda di momenti più affettati che a effetto.

Nous finirons ensemble, recita il titolo originale, ovvero “finiremo insieme“. Una dichiarazione d’intenti che si riflette nella messa a punto di una manciata di psicologie allo sbando che condividono anzitutto il non saper stare (più) al mondo, con un bilancio esistenziale al ribasso. Se nel primo film i personaggi si ritrovavano a fare i conti con la morte di uno di loro, proprio come nel film di Lawrence Kasdan con Kevin Costner datato 1983 e precedentemente citato, qui il convitato di pietra non è più la morte improvvisa e prematura ma la sensazione, estremamente contemporanea, di un’inadeguatezza che investe in maniera indiscriminata tanto i quarantenni come i cinquantenni.

La location è sempre la stessa, Cap Ferret, ma tutti sono cambiati lievemente in peggio. Più sfocato è anche il controllo di Canet sulla materia narrativa, che non capitalizza appieno il lascito di Piccole bugie tra amici, complessivamente superiore a questo seguito. Il concept commerciale è esattamnte lo stesso, una commedia borghese corale con punte di drammaticità e improvvise accensioni di commozione e riflessione, ma alla sceneggiatura manche l’economia di racconto, con ampie concessioni al farsesco che rimandano eccessivamente tanto le lacrime quanto la malinconia agrodolce del confronto col passato.

L’elemento di pregio che trova invece conferma è senz’altro il valore delle singole interpretazioni, amplificato da una dimensione di costante messa in scena in cui ogni personaggio, per citare Jep Gambardella, sembra recitare a memoria il copione della propria vita, con una sicurezza performativa di stampo teatrale. A cominciare dalla prova di un François Cluzet in disarmo e sempre prossimo al naufragio, con a disposizione una gamma espressiva e una mimica che lo fanno assomigliare sempre di più al Dustin Hoffman di Francia.

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