High Life

Un film di fantascienza sublime e terribile su quanto poco sappiamo della crudeltà, sull'amore cannibale e le sue lusinghe. Con un Robert Pattinson sempre più estremo e coraggioso

High Life di Claire Denis
PANORAMICA
Regia (4.5)
Interpretazioni (4)
Sceneggiatura (4)
Montaggio (4)
Fotografia (4)
Effetti speciali (3)

In un’astronave sono prigionieri dei criminali che vengono utilizzati per degli esperimenti medici. A capo di questa zona franca dispersa nello spazio, un carcere per un manipolo di criminali e prigionieri impegnati in un voto di castità, c’è la dottoressa Dibs (Juliette Binoche), investita del compito di fare ricerca sulla fertilità per creare a tavolino un nuovo prototipo di essere umano, perfetto come mai prima d’ora. A remare contro c’è uno dei segregati, Monte (Robert Pattinson), aggrappato a un ultimo barlume di vita reale ancora percepibile.

High Life, primo film in lingua inglese della grandissima regista francese Claire Denis, ha una prima mezz’ora che è praticamente una sinfonia silenziosa e astratta di gesti muti, di atti d’amore delicati e ingiustificati. In campo ci sono praticamente solo Pattinson, narcolettico e spiritato come in Cosmopolis, un bambino e dei corridoi illuminati con grande perizia visiva. Un blocco iniziale che è l’ennesima conferma, semmai ce ne fosse bisogno, di quanto il cinema della regista di Beau Travail e Vendredi soir abbia raggiunto col passare del tempo un grado di complessità, di fascino e di spessore intellettuale spaventoso e indicibile, di cui High Life è un evidente punto d’approdo.

È anche curioso e sintomatico notare che questo apice sia arrivato in contemporanea con un salto nel vuoto dal sapore mainstream, ma solo in apparenza: un film di fantascienza con attori noti e riconoscibili, segnato però da un’atmosfera fuori dal tempo e dalla Terra, angosciante, mortifera e asettica. High Life si concentra su un contenitore di individui post-umani sganciati a forza e con forza dai propri corpi e dai loro bisogni fisici, alla larga dal sistema solare, dalla Gravità, dalla Terra e dalle sue implicazioni. Una provetta concentrazionaria conficcata nell’ignoto spazio profondo, con tanto di proprio giardino dell’Eden (?) in dotazione.

Eppure quelle pulsioni sono il cuore evidente del discorso, il punto di partenza e d’arrivo di tutta l’operazione: una parabola su sesso e mortalità degna di David Cronenberg (la pazzesca sequenza dell’orgasmo della Binoche sembra uscita direttamente da uno dei suoi film), una danza seducente che parla la lingua di una carnalità istintiva e animale e, al contempo, della sua negazione. Gli impulsi dei sensi, nel film della Denis, sono dopotutto ciò che ancora i personaggi alla loro natura umana e insieme ciò che li allontana irrimediabilmente da ogni forma di decenza e legittimità, un’arma a doppio taglio struggente e terribile.

Proprio per queste ragioni, e per il modo in cui affronta e maneggia questa metafora radicalissima, High Life è quanto di più vicino ad Alien di Ridley Scott sia stato pensato e realizzato negli ultimi anni, qualcosa di sconcertante e radicale per ambizione e ideazione (il finale guarda addirittura a 2001: Odissea nello spazio di Kubrick). Inevitabilmente ostico, com’è legittimo che sia, ma spaventoso e straziante per il fascino che disvela lentamente, centellina con rigore chirurgico e congela in una bolla di angoscia.

Probabilmente un’opera definitiva sulla natura fantasmatica del desiderio, ossessione martellante e imperterrita proprio perché forza accentratrice che più di ogni altra monopolizza i nostri sforzi e bisogni e allo stesso tempo ci dilania, separandoci con un taglio netto e deciso dall’integrità dell’Io e recidendo il cordone ombelicale che ad esso ci lega in maniera simbiotica.

High Life è un prodotto di fantascienza quasi stregonesco per il modo oscuro e misterioso con cui setaccia degli spiragli possibile di luce dentro i buchi neri delle anime e dei corpi, parlando di riproduzione come di un rito satanico da laboratorio, e della spinta sessuale come del più umano, troppo umano dei moti di sopravvivenza, un linguaggio codificato e insieme illeggibile.

Un elemento vertiginoso e provocatorio, specialmente di questi tempi di facile moralismo ossessivo e a buon mercato, ma anche una dissertazione, disturbante come tutto il cinema di questa inclassificabile e singolare regista, su quanto poco sappiamo – a tutti i livelli – della crudeltà, sull’amore cannibale e le sue lusinghe.

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