Hunger Games: la recensione di LucaSar

“Utopia” è un’isola di felicità in cui i rapporti fra gli uomini sono regolati da un naturale e comune senso di fratellanza. Se il luogo immaginato da Thomas More è un posto, per sua stessa definizione, tanto irrealizzabile quanto desiderabile, allora “Distopia” deve indicarne l’esatto contrario. Il mondo creato da Suzanne Collins e portato sullo schermo da Gary Ross (Pleasantville) ben si adatta alla definizione di distopico: se un luogo in cui si è costretti a sacrificare annualmente al proprio oppressore due figli è infatti detestabile, è altrettanto vero che è spaventosamente realizzabile e realistico. Ed è forse questa caratteristica quella che più ha conquistato prima i lettori e poi gli spettatori di Hunger Games, decretandone il successo editoriale e cinematografico. La storia racconta di un’America del Nord del futuro, divisa in dodici distretti costretti a versare, ogni anno, alla loro capitale un terribile tributo: due ragazzi, un maschio e una femmina, provenienti in coppia da ogni distretto, devono partecipare a un terribile reality show, in cui devono uccidersi fino a che non ne rimane uno solo, il vincitore. Il film, uscito nelle sale cinematografiche italiane il 1 maggio, è un’opera di straordinaria delicatezza che non può lasciare indifferente lo spettatore, complice la riuscita prova di attoriale di giovani talenti come Jennifer Lawrence (Un gelido inverno) e Josh Hutcherson (Innamorarsi a Manhattan). Se i paragoni tra la storia di un libro e quella che poi ne viene sceneggiata in un film lasciano solitamente il tempo che trovano, perché appartengono a due mezzi artistico espressivi diversi e devono rispondere a regole ed a esigenze differenti, in questo caso forse il metterle a confronto non è completamente fuori luogo. Gli sceneggiatori – e non è un caso che tra essi compaia anche la scrittrice della saga – hanno fatto in modo che la storia raccontata nel film risulti complementare a quella del libro: tutti i monologhi interiori di Katniss, fondamentali alla storia e al suo evolversi, passano attraverso gli sguardi e i gesti dell’abile Jennifer Lawrence, e davvero il minimo è concesso alle spiegazioni verbali che probabilmente sarebbero risultate, come accade quasi sempre nei casi di trasposizione cinematografica di una storia letteraria, fastidiosamente didascalici. Il pathos, nel senso positivo del termine, che niente ha a che vedere col patetico a cui tante pellicole ci hanno anche recentemente abituato, è ciò su cui Gary Ross punta tutto. Risulta vincente la scelta, forse non molto popolare, ma lodabilmente artistica, del regista, che privilegia i silenzi e niente concede a una vuota spettacolarizzazione degli eventi, che tanto ricorderebbero il lisergico reality show di Capitol City, e in cui facilmente si potrebbe cadere nel dirigere un film che, sulla carta – non dimentichiamolo – è anche un film d’ azione. A Capitol City, la città degli eccessi, del lusso e della vuota ostentazione, si contrappone l’intima umanità dei protagonisti, reali e vivi protagonisti della vicenda, che proprio nel silenzio e nell’autenticità trovano la loro dimensione di eroi e giungono dritti al cuore dello spettatore, centrandolo come una delle frecce scagliate dall’indimenticabile protagonista.

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