Il permesso – 48 ore fuori: la recensione di Mauro Lanari

“Due giorni ci sembravano il periodo giusto per dare dinamicità alla storia. Ho cominciato a fare l’attore alla terza settimana. Era la prima volta che mi dirigevo e il primo giorno ero distratto dal meteo e dai miei doveri di regista, così non entravo in scena. Quel giorno mia moglie Francesca Neri era sul set e mi ha rimproverato, così ho imparato a separare i ruoli”. Amendola appare quasi al 5° minuto del film, si ferma in Mezzo Busto/Mezzo Primo Piano per accendersi una sigaretta, la sosta dura circa 15 secondi, poi esce dall’inquadratura e si fa riprendere di spalle con sott’il suo nome come regista. Siamo nel 2017 e ancora i personaggi vengono presentati con stratagemmi da manuale di sceneggiatura del (bis)nonno? “La struttura a incastro m’ha molto colpito e affascinato”. Ma il “puzzle movie” non aveva già esaurito la sua insulsa vena oltre dieci anni fa, con Mendes, Haggis, la “trilogia sulla morte” d’Iñárritu? Avanguardia nostrana che rincorre stilemi già naftalinizzati nel resto del mondo. Ne “Il Permesso” si salva una (l’unica) invenzione, quello del ragazzo ch’in galera s’è appassionato all’Architettura dei giardini (“Architettura del paesaggio”) e della ragazza che, avendo studiato dalle suore, flirta con lui citandogl’il “Cantico dei cantici” (“Giardino chiuso tu sei, / sorella mia, sposa / giardino chiuso, fontana sigillata…”: 4, 12 ecc.).

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