Il vizio della speranza: la recensione di loland10

Il vizio della speranza (2018) è il quarto lungometraggio del regista napoletano Edoardo De Angelis.
Napoli e oltre confine, Castel Volturno e gli ultimi, il mare e i rifiuti, l’umanità sfruttata e le luci natalizie contro una vita grama fatta di espedienti minimi e senza ritorno, di corpi sfatti e di cerchi mai chiusi. Un confine non disegnato che nessuno conosce dove il volto di una donna è segnato per sempre. Lì vicino sembra scorrere una vita normale tra un ponte in lontananza (e un traffico disperso) e un mare rabbuiato dai clamori finti di una festa con presepe assente.
Ecco che il vizio è fare un film tra rovine, deserti, poveri e ultimi, ai confini di un mare burrascoso e con un tono dialettale senza remore e discordie. Un vizio che testa accordato da una maschera con poca voglia di cambiar
Il film della pochezza narrativa di comprime in se stesso tra pezzi di vita assente e morente, donne di foga, nature in vasca, onde oscure e luci natalizie che sanno di barriere col mondo glamour e ostrntatato dall’altra parte del molo verrebbe da dire.
De Angelis sa anche percorrere bene il giro dietro i personaggi ma sono i personaggi che sono trasandati nelle condizione di andare oltre il loro quasi dovuto vivere. Non sfiora asetticamente nessuno la diaspora di una commozione nemmeno nelle didascalie numeri settimane, e alla quarantesima di attende lieta notizia impoverita di nulla con un fuori onda che alla fine fa tristezza.
Il laico fuoco natalizio degli ultimi rispolvera disdegnato un nato che vede il mare con sua madre e vende il cantuccio dia una improbabile famiglia. E Maria diventa icona di freddezza e di nulla: nessun segno oltre lo schermo nonostante la buona volontà e le musiche di Avitabile che ci propina per due volte la canzone sull’ amor….. tiranno…senza scherzi.
Un film con molte buone intenzioni ma che rischia ogni volta che il registro diventa personale e con una sorta di piccola scena madre: una serie di visuali e di piccoli puzzle da incastrare ma non trovano sempre il quadro giusto. Una vita a pezzetti non ben amalgamati.
Una regia anche buona ma che non porta ad una non confondibile linea narrativa, con pezzi e ritagli da ricucire a proprio piacimento (o forse questo a è la linea filmica?) tra visi liberi e ricordi amari dentro.
E i personaggi di donne abbandonate ai loro grembi gonfi e agli sguardi con poche lacrima di una terra vispa di miseria e amarezza sconsiderata
La madre di Maria che chiude la libertà e lancia un quasi programma per la schiavitù dove ci sono regole e sicure leggi…Meglio essere costretti….per rispettare(si).
Tutto raffazzonato fino ad una corsa in chiesa…,vuota e senza idee….con cartelli fuori e nessun dentro…lo spirito dell’assenza come nel film del regista napoletano che riesce in modo alterno a emozionarci e passare lo schermo. Un docu-film di impronta indecisa.
Il vizio resta una speranza di un cinema di vera nicchio che riesce a conquistare
poco e di cui visi e vite rimangono lontani senza suscitare vera emozione e disegno di livore umano.
Un ritrovo amaro tra vita comprata e vita che vuole nascere, vita compressa e un lumicino per una (laica) famiglia senza l’alito caldo di un quadrupede oramai sfinito e spento (mentre le luminarie natalizie amaramente lampeggiano).
Maria nel volto di Pina Turco (moglie del regista) sembra abbandonata a se stessa senza una vero orientamento: sbandamento e senso di svuotamento, intristita e arroccata ad un amico fedele. La morte è un abbraccio fin troppo attaccato a se stesso e senza buchi oltre per lo spettatore.
Regia di De Angelis, addosso e laterale, staccata e vile, per niente odorante ma putrida di terra madre.
Voto: 5,5/10 (** 1/2)

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