Insyriated

La devastazione della guerra siriana in un film potente e claustrofobico, intimo e commovente

Insyriated: la recensione

Oum Yazan (Hiam Abbass), madre di tre figli, vive barricata nella propria abitazione, in una città siriana sotto assedio. Mentre fuori infuriano le bombe e la distruzione della guerra, la donna ha cercato di rendere la sua abitazione un porto sicuro per parenti e amici. Non sarà facile, però, continuare a farlo quando in casa sua faranno irruzione ladri dediti alla violenza e al saccheggio, con i cecchini appostati per tramutare perfino i cortili in aree di morte e frantumare, nel segno della brutalità, ogni equilibrio e zona d’ombra.

Presentato alla Berlinale e alla Festa del cinema di Roma 2017Insyriated è stato uno dei film più sorprendenti dello scorso anno (nelle sale italiane è arrivato il 22 marzo grazie a Movies Inspired). Per la costruzione della tensione, per l’impatto del fuori campo oltre che del campo; il primo, dopotutto, coincide col campo di battaglia, con quello che è senza appello il più grande conflitto del nostro tempo: la guerra civile siriana, dalla quale il personaggio della madre, interpretata dall’attrice palestinese con cittadinanza israeliana Hiam Abbass, prova disperatamente a isolare dei frammenti fragili e precari di integrità familiare e sociale. Il campo, appunto: ciò che sta al cospetto della macchina da presa, assediato dai fantasmi lontani di una violenza sorda e cieca, che irrigidisce e blocca i sensi, ancor prima della mente e del cuore.

Non è un caso, dunque, se Insyriated sia un film di sicuro più sonoro che visivo, perché ciò non si può vedere ma si può solo udire vale forse più di qualsiasi immagine insostenibile, di qualsivoglia tortura offerta al profilmico, a ciò che sta davanti l’occhio del regista. Il belga Philippe Van Leeuw, alla sua opera seconda e già direttore della fotografia per un nome di punta del cinema europeo come Bruno Dumont, immortala questa paralisi della percezione con equilibrio encomiabile, con un’immobilità gelida che riesce a non farsi mai compiacimento e voyeurismo (il regista cita Jacques Tourneur nelle note di regia ribadendo che meno si vede, al cinema, meglio è, ma tra i suoi riferimenti insospettabili c’è pure Panic Room di David Fincher, altro film, a suo modo, sulle immagini mancanti).

Perché in Insyriated, film immersivo ma clinico e distaccato fin dal titolo, c’è un’osservazione intima e privata che non arretra di fronte all’abisso del dolore, ma che allo stesso tempo rinuncia alla tentazione del colpo di coda a effetto, dello sconcerto programmatico, della tortura e dello stupro a favore di camera. Siamo in un unico appartamento, per ventiquattr’ore, abbondano primi piani carichi di solitudine e dialoghi così duri da far trasecolare, per non parlare dell’aggressione fisica che è il cuore drammatico del film. Però il regista più volte si defila, si apparta, si discosta da una centralità morbosa (ha soggiornato in Libano, dove infuria la guerra civile proprio come in Siria, per la quale si è avvalso di molti consulenti a lui vicini). Lavora sui contorni e sui confini del lutto di un popolo, in questa grande pagina di cinema bellico contemporaneo, asserragliato e commovente.

Non certo per svalutare gli eventi che denuncia e rappresenta, ma perché solo lavorando ai margini di una catastrofe in atto e forse già avvenuta, già definitiva e ineluttabile, è possibile, dalla periferia delle sue estensioni, provare a risalire al suo cuore sanguinante, facendosi largo in una serie di vene e arterie recise. In maniera troppo spesso tutt’altro che metaforica.

Mi piace: il voto di castità al servizio della tragedia

Non mi piace: la compattezza del film, granitica ma non programmatica, lo mette al riparo da qualsiasi difetto

Consigliato: a chi cerca un cinema rigoroso ma indispensabile, tanto duro quando umano, in grado di incidere nella carne viva e nelle ferite sanguinanti del suo tempo

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