La ragazza del treno

Nulla è come appare in realtà in questo thriller psicologico di Tate Taylor (The Help), che prende le mosse dal bestseller di Paula Hawkins. Nulla è come sembra, perché a filtrare la nostra visione è lo sguardo di Rachel, alcolizzata che ogni giorno compie lo stesso tragitto in treno dal sobborgo di Ardsley-on-Hudson a Manhattan e che è quasi sempre sbronza. Rachel, capiamo via via attraverso una narrazione che ci trascina avanti e indietro nel tempo, viveva in una bella villetta di un bel quartiere con un bel marito. E quando l’idilliaco quadretto si è frantumato è andata in pezzi anche la psiche della donna. Che viaggia verso New York senza meta, perché è stata licenziata un anno prima, ma non ha il coraggio di confidarlo alla coinquilina che l’ha accolta nel momento del bisogno; e così fa su e giù sbirciando dal finestrino l’ex marito e la sua nuova compagna, ma soprattutto una coppia giovane che rappresenta tutto ciò che lei ha perso: amore, sesso, complicità e bellezza.

Tutto procede abitudinariamente dentro la bolla confusiva di Rachel, fino a quando non scorgerà la ragazza da lei invidiata baciare un altro uomo. La scoperta scatenerà in lei una rabbia indicibile, perché scoperchierà i brutti ricordi dei fatti che hanno preceduto il suo divorzio. E quando la fedifraga spiata sparirà senza lasciare tracce, lascerà in Rachel il dubbio di essere stata la causa della sua scomparsa.

La donna si lancia dunque in un’indagine pericolosa più in cerca dello scopo che mancava alla sua vita da tempo che di una verità che possa scagionarla da qualsiasi accusa. E la  mancanza di attendibilità della protagonista/narratrice causata dall’alcool ci permette di ricostruire la storia insieme a lei, senza conoscere in anticipo i pezzi mancanti del puzzle: l’aspetto più intrigante del film, che strizza l’occhio alle atmosfere di Gone Girl di Fincher ma senza averne la stessa profondità.

Emily Blunt è sicuramente una delle principali ragioni per cui vedere questa hitchcockiana Finestra sul cortile in movimento, che nelle intenzioni dell’autrice compone un quadro della psiche femminile, rintracciando i tratti comuni di donne distantissime tra loro, ma accomunate dalla sofferenza e dal conflitto con i propri uomini. Tre Grazie, il cui destino si allaccerà caoticamente e ricomporrà armonicamente; quasi un invito alla sorellanza, solitamente molto ostica nel mondo muliebre, di fronte alle avversità poste da quello virile.

L’omonimo romanzo nel nostro paese ha venduto 600mila copie (15 milioni nel mondo) e sicuramente il film beneficerà di questa sinergia, sebbene come thriller sia piuttosto canonico e con un finale facilmente prevedibile. A renderlo affascinante e godibile sono soprattutto le tre protagoniste femminili e il vouyeurismo come ulteriore protagonista. Oltre la Blunt perfetta in questo ruolo borderline, Rebecca Ferguson (che aveva lasciato senza parole in Mission: Impossible 6) e la sempre più lanciata e ammaliantissima Haley Bennet, che fa girare la testa a tutti gli uomini dentro (e fuori) il film. Questi ultimi (Luke Evans, Justin Theroux ed Edgar Ramirez) sono lasciati in secondo piano, mentre avrebbero potuto contribuire a una maggiore suspense se fossero stati approfonditi.

Mi piace
L’interpretazione convincente delle tre attrici protagoniste

Non mi piace
Lo scarso approfondimento dei caratteri maschili

Consigliato a chi
Ama i thriller psicologici dove niente è come appare

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