La ruota delle meraviglie

Timberlake e Winslet in La ruota delle meraviglie

Uno sguardo dalla ruota panoramica, avrebbe potuto chiamalo così il suo film Woody Allen per quanto è forte il legame con il teatro americano – Eugene O’Neill, Tennessee Williams e Arthur Miller in particolare. Quasi tutta la storia si svolge nella casa di Humpty (Jim Belushi), un giostraio di Coney Island, sposato con Ginny (Kate Winslet), un’ex-attrice frustrata e innamorata del bagnino Mickey (Justin Timberlake), che a sua volta aspira a diventare drammaturgo. Amore ricambiato almeno fino a che non entra in scena Carolina (Juno Temple), figlia di Humpty da un precedente matrimonio e pupa di un gangster di New York, dal quale è scappata dopo averlo denunciato alle autorità.

Allen ha sempre definito la sua cultura “a macchia di leopardo”, nel senso che è preparatissimo su certe cose che ama e per nulla su altre, e La ruota delle meraviglie rispecchia bene questa immagine. Per chi ama il teatro è come vedere dei personaggi di Miller finire sul palco di un dramma di Williams (o viceversa, fate voi), ma con i tempi comici di Allen che fanno capolino qua e là, il suo cinema più riconoscibile appena dagli interni si esce in esterni, e una singola trovata sopra le righe – quella del bambino piromane – che è al 100% farina della sua ispirazione più pura (senza considerare l’importanza di Coney Island nella sua filmografia, basta pensare a Io e Annie).

In questo senso il film per lo spettatore è facile o difficilissimo a seconda delle passioni e dell’umore, ci sono molte parole dentro un contesto che è chiaro fin da subito, la storia ha la strada tracciata e tutto si riduce (ma “riduce” per modo di dire, c’è molta grandezza nel film) ai personaggi e al posto in cui vivono, che in questo caso rappresentano una cultura, un linguaggio, un immaginario. È enorme il piacere nel vedere la più grande attrice della sua generazione, cioè Kate Winslet, fare questo, cinema e teatro assieme, senza che sia mai completamente l’una o l’altra cosa, una specie di territorio ambiguo che non è palco e non è pellicola, illuminato con la stessa magniloquente incertezza da Vittorio Storaro.

Per questo la ruota del titolo è il simbolo esatto del film, perché più che un oggetto di scena è la scena stessa, la parte di mondo dipinta sul legno dei fondali, circondata dalle quinte, quella che si illumina dietro le finestre di cartapesta e ti invita a immaginare.

Per finire: è confortante scoprire come l’ispirazione di Woody Allen, proprio attraverso la collaborazione con Storaro e l’adozione del digitale, abbia subito una sterzata, si sia rimessa in movimento: Wonder Wheel non assomiglia troppo a niente della sua lunghissima carriera, e c’è dentro un calore senza tempo, un patrimonio di immagini e sentimenti, che assomiglia a un’eredità.

Mi piace: un grando omaggio al teatro americano del ‘900: scrittura sopraffina, interpretazioni clamorose.

Non mi piace: il plot è leggerissimo, lo scrivi in due righe.

Consigliato a chi: non è convinto ancora che Woody Allen stia vivendo una seconda giovinezza.

VOTO: 4

© RIPRODUZIONE RISERVATA