Le streghe di Salem: la recensione di Gabriele Ferrari

Considerazione preliminare: Le streghe di Salem è un film uno e trino come la divinità che si prefigge di sbeffeggiare. Inutile girarci troppo intorno: il nuovo film di Rob Zombie è blasfemo, provocatorio e molto offensivo nei confronti della religione cattolica; se siete credenti, o anche solo se siete animi sensibili, evitatelo come la peste.

Si parlava di trinità, dunque. Restando nella metafora, il padre in questione è più che altro un gruppo di padri: Mario Bava, Dario Argento, il Roman Polanski di Rosemary’s Baby, persino Stanley Kubrick. Rob Zombie è un regista cinefilo e citazionista, che gioca da sempre con i suoi film preferiti come fa Quentin Tarantino: e se La casa dei 1000 corpi era un omaggio alla grindhouse e ai B-movie in generale, se La casa del diavolo era un road movie scritto e diretto come fosse un film di Peckinpah, Salem è un horror vecchio stile, che affonda le sue radici in quegli anni Settanta fatti di provocazioni visive, tagli di luce rossa e un immaginario satanico tanto dozzinale quanto efficace nel suo impatto. Solo la storia raccontata – Heidi, dj di una radio locale, riceve un 33 giri che contiene messaggi satanici e lo manda in onda; da lì comincia la sua discesa verso un inferno metaforico e letterale – tradisce le origini anni Ottanta di Zombie, visto il richiamo neanche troppo velato al cult Morte a 33 giri.

Il figlio, invece, è Zombie stesso, in particolare lo Zombie metallaro, volgare, eccessivo e spettacolare come uno show di Alice Cooper: per quanto raffinato sia il suo tocco registico, Zombie resta un rocker caciarone con il gusto della provocazione, che infarcisce il suo film da un lato di citazioni e riferimenti alla sua musica preferita (si va dai Rush agli Slayer ai Primus al black metal, quasi un manuale di musica pesante degli ultimi quarant’anni) e dall’altro di immagini semplici(stiche) ma efficaci, prese di peso dal Manuale del satanista dilettante. La scansione narrativa di Salem segue quella cronologica della settimana vissuta da Heidi (che è la sempre splendida e sempre non troppo espressiva Sheri Moon, moglie di Rob): ogni giornata è un passo ulteriore lungo la strada della follia, ogni giornata si conclude con un incubo psichedelico. Ci sono le streghe (segnaliamo in particolare Dee Wallace, che fu in Le colline hanno gli occhi ma fu anche la mamma di Elliot in E.T.), ci sono i reverendi, ci sono gli immancabili esperti di demonologia, e soprattutto ci sono creature capriformi, aborti che potrebbero essere l’Anticristo, molto sangue e molta violenza.

E lo spirito santo? Per sua stessa natura è l’aspetto più sfuggente del film, quello che potrebbe farvi urlare al capolavoro come alla boiata pazzesca. Salem è un film lento e rarefatto, nel quale Zombie, tra corridoi vuoti e appartamenti in decadenza, gioca a fare il Kubrick e a imitare Rosemary’s Baby; il regista americano si disinteressa volutamente di piccoli dettagli come “il senso del film” o “un finale coerente”, preferendo giocare di suggestioni, atmosfere e trovate visive. È cinema citazionista e autoreferenziale, ai limiti dell’ombelicalità, che richiede una sintonia quasi perfetta con le visioni psichedeliche del suo regista; se avete amato i film di Mario Bava, i romanzi di Stephen King e i dischi di Venom e Mercyful Fate siete nel posto giusto, altrimenti avvicinatevi a Salem a vostro rischio e pericolo.

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Mi piace
Il coraggio e l’incoscienza di Rob Zombie nel girare un film completamente alieno al panorama cinematografico odierno. Lo stile visivo del regista, tra omaggi e idee originali, è inconfondibile ed è una goduria.

Non mi piace
Il confine tra citazionismo e autoreferenzialità è labile, e Zombie lo travalica spesso. La storia non ha né capo né coda. Per quanto splendida, Sheri Moon non è propriamente un fenomeno.

Consigliato a chi
Ai fan di Rob Zombie, ma anche a quelli di Mario Bava e Stanley Kubrick, di Roman Polanski e Dario Argento, e più in generale dell’horror d’atmosfera.

Voto: 3/5

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