L’ipnotista: la recensione di Gabriele Ferrari

Forse non è professionale cominciare una recensione con un aneddoto personale, ma tant’è: qualche sera fa, chi scrive stava aspettando l’inizio del telegiornale, annoiato dalle pubblicità che passavano in tv; d’un tratto, quasi a sorpresa, il trailer di un film: luce livida e bluastra, facce rovinate dal sonno e dalle sigarette, montaggio frenetico, gelida violenza. «Sembra Millennium» è il primo pensiero. «Chissà che film è, sembra interessante». Finisce il trailer, compare il titolo del film: L’ipnotista; il vostro affezionatissimo capisce quindi che si trattava del promo di una pellicola vista qualche giorno prima. Panico e confusione: è corretto presentare un film noioso com’è la nuova opera di Lasse Hallström come se fosse un thriller mozzafiato, dal ritmo travolgente e affilato come la lama di un rasoio?

Sono domande oziose: la trilogia di Stieg Larsson con protagonisti la hacker Lisbeth Salander e il giornalista Mikael Blomkvist ha fatto conoscere in tutto il mondo la ricca scena thriller del nord Europa, e la prima naturale conseguenza è un fiorire di eredi, cloni e imitatori, da Jo Nesbø ad Arne Dahl. La seconda è l’arrivo in sala di altrettante copie più o meno fedeli di Millennium, tra le quali L’ipnotista è forse la più lussuosa, considerando che a metterci mano è un regista due volte candidato all’Oscar come Hallström, che con Chocolat e Le regole della casa del sidro è riuscito a coniugare lo stile asciutto tipico del cinema nordeuropeo con un senso del melodramma quasi mediterraneo. Domanda: cosa c’entra un autore del genere con un thriller iperviolento? Risposta: purtroppo, molto poco.

La storia di L’ipnotista è quella di Joona Linna (Tobias Zilliacus), investigatore coinvolto in un caso di omicidio plurimo: un’intera famiglia sterminata, un unico superstite, il figlio quindicenne Josef. Sotto shock dopo aver assistito al massacro, Josef non è in grado di parlare né, di conseguenza, di raccontare alla polizia i dettagli dell’evento, quelli che potrebbero aiutare la risoluzione del caso. Linna si rivolge così a Erik Maria Bark (Mikael Persbrandt), psicologo ed esperto in ipnosi: saranno le sue tecniche ad aiutare Linna a entrare in contatto con il ragazzo. Com’è naturale che sia, le cose non vanno lisce come potrebbero, e il killer torna in azione, arrivando a colpire anche chi sull’omicidio sta investigando.

È un plot classico ma dal grande potenziale (il romanzo, pur non eccezionale, catturava dalla prima all’ultima pagina), che però nelle mani di Hallström si diluisce in due ore di pellicola, delle quali almeno mezz’ora è di troppo. Il regista svedese indugia troppo sulla costruzione dei (poco interessanti) rapporti tra personaggi e su spettacolari riprese di una Stoccolma innevata, dimenticandosi – o semplicemente dimostrando di non saper padroneggiare – gli elementi fondamentali di un thriller: tensione, ritmo, coinvolgimento. L’ipnotista diventa così un esercizio di stile un po’ sciocco, che arriva spesso ad annoiare e al quale mancano personaggi iconici (come poteva essere la Lisbeth di Millennium) e momenti coraggiosi e/o indimenticabili (come poteva essere la scena dello stupro ancora in Millennium). Il risultato finale ha più del film tv che del blockbuster da cinema: efficace per prendere sonno in una piovosa domenica pomeriggio, o come cartolina postale sulle bellezze della Stoccolma d’inverno, dimenticabile sotto ogni altro punto di vista.

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Mi piace
Stoccolma: a giudicare da come la dipinge Hallstrom dev’essere una città meravigliosa. L’idea dell’ipnosi come strumento d’indagine è affascinante…

Non mi piace
… ma nel film si avvicina pericolosamente al territorio “magia”. Ritmo e tensione sono vicini allo zero.

Consigliato a chi
Non vive senza i thriller svedesi.

Voto: 2/5

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