Logan: la recensione di AleRises

Se non fosse che conosciamo benissimo il volto barbuto di Hugh Jackman il terzo e ultimo film sul mutante con gli artigli è quasi un capitolo zero e indipendente nella saga degli X-Men. Di fatto lo è, anche chi non ha mai visto un film sui mutanti può far propria la storia.
Già dalla sequenza d’apertura verrebbe da chiedersi, è proprio lui? Che ne è dell’uomo conosciuto come Wolverine, dove sono finiti quei cornetti naturali ai lati della sua capigliatura, perché adesso fa l’autista di una limousine? Domande che non necessariamente troveranno una risposta, anche la tipica barba del mutante belva non c’è più, così come non vi è quasi più traccia degli X-Men.
Nel 2029 Logan porta i segni del tempo, è affaticato e non guarisce più come una volta. Fa avanti e indietro col confine messicano dove in una vecchia fonderia si prende cura del vecchio e malato professor Xavier (Patrick Stewart), chiuso dentro una cisterna arrugginita per tenere a freno i suoi poteri diventati sempre più devastanti, con loro anche uno degli ultimi mutanti, Calibano.
L’ultimo atto sul viaggio di Logan adotta un tono e un linguaggio mai visti, liberi da paletti narrativi e retorica, emblematico il modo in cui si parlano Logan e Xavier, ed è proprio il professor X quello più sorprendente, non è allergico a sproloqui e ad un linguaggio da strada, mente Logan lo sappiamo introverso lo è sempre stato, costretto a convivere con la sua natura bestiale e i difficili tentativi di trovare il proprio posto nel mondo, una causa per cui vivere.
Ma se intorno a te c’è solo desolazione e polvere l’unica meta possibile è l’anonimato, sparire per sempre abbracciando l’autodistruzione.
In mezzo a tanto vuoto interiore, alla rabbia, ai metodi bruschi, e l’istinto ad isolarsi per Logan è sempre stata dura rimanere in disparte, fermo a guardare. Se poi hai perso gran parte dei tuoi affetti non sei incline alla mediazione, così qualunque cosa o chiunque si metta sulla tua strada viene affrontato con una brutalità che ha sempre il sapore di una resa dei conti che ti impedisce di accogliere la speranza, raffigurata da Laura (l’esordiente e convincente Dafne Keen), una giovanissima mutante scappata da un programma che sulla base del dna dei mutanti ha forgiato una nuova specie X da usare come arma.
Il clima che si respira in Logan è quello delle battaglie del vecchio west dove al posto dei cavalli e delle diligenze ci si insegue con i pick-up e la ferocia è costante in un’atmosfera di fuga perpetua per Logan, Xavier e la piccola Laura. Lo stile che James Mangold imprime alla storia è di certo serioso, il dramma però non ha bisogno di essere sollecitato, ha un tempo ed immagini proprie, caratterizzate da un nichilismo profondo, dall’amarezza che ti avvelena il cuore.
Se è vero che ogni uomo ha la sua via tracciata e non può cambiarla anche sul sentiero di guerra e di malessere interiore in Logan si incontrano altrettanti piccoli momenti di tranquillità, di quiete, una serenità sempre rincorsa per chi come lui ha vissuto da estromesso, e così la violenza, l’aspetta trucido ben si combacia con le ultime forze di un uomo tormentato capace a suo modo di trasmettere un messaggio, esprimendo con gli occhi e con il provato respiro di un soldato stoico tutto ciò che era sepolto sotto la barba, le cicatrici, le parolacce, gli scatti d’ira perché per tutti, anche per i perseguitati può esserci davvero un eden.
Hugh Jackman si conceda dal ruolo con una performance intensa, generosa, appassionante mostrandoci il vero Logan, quello più spontaneo, vulnerabile e iconico in un modo umanissimo, come mai mostrato nel corso di questi lunghi 17 anni in un terzo atto che della brutalità, del sangue, della drammaticità fa la sua cifra riuscendo allo stesso tempo a coinvolgere e ad emozionare.

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