Midsommar – Il villaggio dei dannati, la recensione

Ari Aster, reduce dal successo dell'horror Hereditary, firma un'opera seconda involuta e pretenziosa, che delude non poco le aspettative

Midsommar - Il villaggio dei dannati, la recensione
PANORAMICA
Regia (2.5)
Interpretazioni (2)
Sceneggiatura (1.5)
Fotografia (2.5)
Montaggio (2)
Colonna sonora (2)

Dani (Florence Pugh) ignora l’ennesima chiamata di aiuto della sorella bipolare, rassicurata, si fa per dire, dal fidanzato Christian (Jack Reynor). Christian vorrebbe in realtà rompere con Dani, ma non sa come dirglielo. Quando purtroppo le peggiori paure sulla chiamata si rivelano fondate, è ormai troppo tardi per intervenire. Christian decide quindi di invitare Dani a partecipare al viaggio organizzato dall’amico Pelle (Vilhelm  Blomgren) in un curioso villaggio svedese, per effettuare studi antropologici e insieme svagarsi nel festival che celebra il solstizio d’estate. Il luogo e i suoi abitanti, tuttavia, non si riveleranno pacifici e rassicuranti come sembrano…

Ari Aster è il nuovo fenomeno del cinema americano: dopo Hereditary, impressionante horror domestico dalla messa in scena serrata e incendiaria, capace di tenere insieme la claustrofobia e delle ricostruzioni in miniatura davvero inquietanti, c’era molta attesa intorno al suo secondo film, Midsommar – Il villaggio dei dannati (il sottotitolo allude a Carpenter, ma il vero modello è The Wicker Man). A questo giro non siamo più negli spazi angusti di una casa, ma all’aria aperta: al centro di tutto una gita in Scandinavia (con annesso trauma familiare di Florence), pronta a spalancare davanti a sé riti ancestrali, deliri tribali ai margini dell’Europa e culti pagani.

Una concentrato di follia di mezz’estate che fa i conti con la mitologia, le tradizioni, le loro conseguenze apocalittiche. L’impressione, chiara e nitida, è però quella di un’involuzione in piena regola, nonostante gli elogi della critica anglofona e l’entusiasmo spasmodico che gli ha riversato addosso Jordan Peele, altro golden boy del cinema di paura contemporaneo. In comune col regista di Noi Aster ha un controllo formale evidente e insistito, estetizzante e avvolgente, che non teme di sporcarsi le mani col ridicolo, col camp, col cortocircuito ironico e parodico.

L’ironia, a dispetto dell’abisso infernale che investe il paradiso perduto e rovesciato in cui piombano i giovani malcapitati, c’è anche in Midsommar, ma il film delude le aspettative perché non riesce a tenere insieme la risonanza delle immagini con una giusta quadratura estetica e narrativa. Il manierismo visivo procede a briglia sciolta e la sensazione è quella di un cineasta già estremamente compiaciuto del proprio ego e delle sue logoranti inquietudini. Un vero peccato, considerando che si tratta solo del suo secondo film e che la carne al fuoco, dalla presa di coscienza femminile in un microcosmo matriarcale ai discorsi sulla fertilità, non è poca affatto.

Se in Hereditary gli eccessi pirotecnici e diabolici erano perfettamente incasellati in un disegno d’insieme di rara potenza, in questo caso ci si muove per fiammate isolate, compresa quella del rogo sacrificale del tempio (scena sontuosa a vedersi, per carità), un po’ gratuite e auto-conclusive. La voglia di scioccare lascia il posto a una sarabanda snervante di misticismo folkroristico da cartolina, confuso e caotico. Aster ricostruisce la Svezia in Ungheria, dimostra anche e soprattutto en plein air di saper girare divinamente, ma l’ostinazione e durata spropositata producono una litania non gradita, ai confini della fuffa narcisista più che della realtà.

Gli alberi e gli amplessi condivisi, le composizioni floreali e il sole abbagliante si confondono in un unico abbraccio mortale, le premesse sono elettrizzanti ma puntualmente disinnescate e le tensioni relazionali e sessuali tra i due protagonisti, lasciate a morire nel prologo sganciato dal resto, somigliano anch’esse al pretesto per una danza macabra e conviviale che gioca vorticosamente d’accumulo ma rimane paradossalmente immobile. Non riuscendo, in ben 140, interminabili minuti, a risolvere la contraddizione iniziale – l’orrore e l’ignoto possono sopravvivere alla luce del giorno? – e girando sinistramente a vuoto. Come una lamentazione funebre di cui si fa fatica a intravedere le ragioni profonde, il dolore reale, perfino i bisogni più intimi e, in definitiva, la necessità.

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