Millennium – Uomini che odiano le donne: la recensione di Giorgio Viaro

Un giornalista svedese condannato per diffamazione (Daniel Craig) e una giovane hacker senza famiglia (Rooney Mara) indagano su una catena di delitti che parte dalla scomparsa della giovane rampolla di una ricca famiglia di industriali, avvenuta 40 anni prima su di un isola perduta tra le nebbie nevose del profondo Nord.

Teoria e pratica del reboot. Quando un film arriva in sala dopo essere stato un bestseller stravenduto e una prima, già apprezzata versione per il cinema, saltano metà dei piani di giudizio. Di cosa stiamo parlando? La storia è nota: ovvero l’ambientazione, i personaggi, la trama, i presupposti storici e politici. Lo stile del regista (David Fincher), anche. La situazione che si crea è quasi più vicina al mondo del teatro che a quello del cinema: valutiamo l’”allestimento”, come si trattasse di una nuova messa in scena dell’Amleto. Valutiamo le scenografie, le luci, i costumi, trucco e parrucco. Valutiamo cosa è stato tenuto del testo e cosa è stato rimosso, come i fatti sono stati raccolti nello script. Valutiamo perfino gli accenti (non ci fosse il doppiaggio), perché, proprio come accade a teatro, gli attori recitano nella propria lingua (l’inglese) personaggi che in teoria ne parlerebbero un’altra (lo svedese). Da questo punto di vista Millennium – Uomini che odiano le donne, è un capolavoro.

Fincher mette in scena una esemplare raccolta di luoghi tipici del noir (violenza sessuale, criminali nazisti, segreti di famiglia, omicidi seriali) attraverso una messa in scena nervosa, furente, quasi “hardcore” (bellissima la colonna sonora di Trent Reznor, elettronica pesante come un macigno) che si stabilizza occasionalmente nei gelati panorami scandinavi. L’intento è dichiarato fin dai titoli di testa, con figure di uomini e donne che emergono e prendono forma in una colata di oli color pece. Nera è Lisbeth, la ragazza con il tatuaggio di drago, che combatte la violenza con  violenza maggiore, eppure ha un codice morale che non è disposta a intaccare; il cui talento investigativo, sorretto da un ingegno fulmineo (oltre che da un Mac polifunzionale…), la fa quasi accostare allo Sherlock post-moderno dell’omonimo serial inglese. Nera è la fotografia, tipicamente fincheriana, dove le luci sono opache, sempre sul punto di essere ingoiate dalle ombre. E neri sono i punti di riferimento delle inquadrature, quelli che richiamano lo sguardo e la memoria (il giorno dopo), come il drago e la cresta di Lisbeth, i suoi occhi senza iride, la bocca aperta di Michael mentre soffoca dentro un sacchetto.

Però un film è anche un film, tutto qui, e non deve pretendere dallo spettatore conoscenze pregresse per essere visto e goduto. In questa ottica Millennium è un ottimo film ma non un capolavoro. Si prende il lusso di evitare ogni scorciatoia narrativa per srotolare un’investigazione che in definitiva porta alla più ovvia delle rese dei conti, lasciandosi comunque dietro aree d’oscurità. Occupa oltre un’ora di film per introdurre i personaggi. Accende e spegne in poco più di venti minuti un epilogo “fiscale” che arriva a scena madre già compiuta e allunga, per amore del romanzo d’origine (e dei personaggi, di nuovo), una storia già esaurita. È un “luogo” in cui passare tre ore, non poche, e richiede la stipula di un patto di complicità tra regista e spettatori, pagato appunto con la messa in scena esemplare di cui parlavamo prima.

Richiede, soprattutto, l’affezione ai personaggi, vero collante e prima qualità del film. Che ancor prima di essere un thriller è, come lo stesso Fincher aveva anticipato tra lo stupore generale, la cronaca partecipata dell’incontro tra due emarginati, un giornalista condannato per diffamazione e una ragazzina violenta, senza famiglia e con un passato e un presente di abusi. È grazie all’alchimia tra i due – l’uno impacciato, l’altra elastica; l’uno quieto, l’altra nervosa ai limiti della rottura; l’uno biondo e ben piantato per terra, l’altra pallida e cupa, quasi aliena – che il film si gioca le carte migliori, nei gesti che si scambiano, nelle parole che si dicono. E soprattutto in quelle che mancano.

Mi piace
L’alchimia tra i due protagonisti, la regia in stato di grazia

Non mi piace
L’epilogo frettoloso e un po’ pasticciato

Consigliato a chi
Ha amato il romanzo d’origine e vuole vederne la miglior riduzione cinematografica possibile

Voto: 4/5

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