Momenti di trascurabile felicità – La recensione

Il film di Daniele Luchetti con protagonista Pif è un bilancio esistenziale buffo e leggerissimo, diviso tra brio surreale e gusto per il paradosso

Momenti di trascurabile felicità
PANORAMICA
Regia (2.5)
Interpretazioni (2.5)
Sceneggiatura (2.5)
Fotografia (3)
Montaggio (3)

Lo yoga e l’Autan non sono in contraddizione? La luce del frigorifero si spegne veramente quando lo chiudiamo? Perché il primo taxi della fila non è mai davvero il primo? Perché il martello frangi vetro è chiuso spesso dentro una bacheca di vetro? E la frase: ti penso sempre, ma non tutti i giorni, che sembra bella, è davvero bella?

A queste, e ad altre questioni fondamentali, cerca di dare una risposta Paolo per fare i conti con i punti salienti della sua vita. Avrà il tempo di fare i conti con le cose importanti della propria vita, o gli torneranno in mente solo momenti di trascurabile felicità?

Liberamente tratto dai due libri di Francesco Piccolo Momenti di trascurabile felicità e Momenti di trascurabile infelicità, il film di Daniele Luchetti con Pif trae il titolo dal primo dei due volumi e ne ritaglia una confezione cinematografica su misura per l’attore, comico e personaggio televisivo palermitano, riprendendone e assecondandone le modalità espressive (a cominciare dalla voce fuori campo), i vezzi e il tocco svagato e sognante.

Catapultato in paradiso dopo la morte, il suo Paolo si ritrova alle prese con un intoppo burocratico che lo riporterà sulla Terra per poco più di un’ora e mezza, che poi è anche la durata del film, che scorre via per novantatré minuti esatti. L’occasione perfetta per un bilancio esistenziale alleggerito da tutti i pesi che la vita normalmente porta con sé, dalle responsabilità e soprattutto dalle conseguenze, inevitabili e puntuali, delle proprie azioni.

Momenti di trascurabile felicità avalla in tutto e  per tutto la vocazione per il disimpegno surreale del suo protagonista, sposandone senza mezzi termini il candore bambinesco e immaturo, la malinconia immotivata, l’attenzione per gli aspetti minimi e irrilevanti del quotidiano. Più che la felicità del titolo – un appassito, irraggiungibile paradosso anche nei testi originari -, insegue un’allegria senza costrutto, pronta a sprigionarsi nei momenti più inaspettati e insperati (col fiabesco e col buffo Luchetti ha già flirtato ampiamente in passato, da Arriva la bufera all’ultimo Io sono tempesta).

Il Paolo di Pif è “un ragazzino attratto da tutto e dunque attratto da niente”, come lo definisce, rimbeccandolo, la più ricorrente e importante, ma anche la più precaria, delle sue conquiste amorose extra-coniugali, qualcosa di più e qualcosa di meno di una semplice amante. Il film, a pensarci bene, ha lo stesso impianto: si muove per leggiadri e minimali blocchi, per mossette e per lampi, ripercorrendo la vita sentimentale di un ometto inadeguato col quale è molto facile empatizzare, specie di questi tempi. Il tutto in un unico grande flashback costruito per situazioni – senza peso, fuori dal tempo -, che si sovrappongono e si rincorrono, muovendosi avanti e indietro, prima e dopo.

Ne viene fuori un racconto a sua volta piccolo e senza troppe pretese, ma indubbiamente sincero nella divertita e irrinunciabile pulsione favolista alla quale si appoggia: un inno flebile al disimpegno, all’utopia del buonumore, alla rivincita dell’irrilevanza. Un’operetta indulgente che rimanda ogni condanna, nella quale non c’è verticalità ma tutto fluisce su un piano orizzontale, tra nevrosi in miniatura e ossessioni infantili, partite del Palermo perennemente in lotta per la serie A (l’ambientazione nel capoluogo siciliana è un’aggiunta del film dettata dalla presenza di Pif) e un impiegato ultraterreno che ha il volto e la voce di Renato Carpentieri, perfetto per il ruolo da intermediario grave e insieme sornione.

La migliore del cast è però senza ombra di dubbio la cantante Thony (magnifica già in Tutti i santi giorni di Virzì), che qui veste i panni della moglie di Paolo: un’interprete non banale e non scolastica, capace di trasmettere sul grande schermo un magnetismo raro, inquieto e insieme empatico, con un naturalismo e una naturalezza che nel cinema italiano odierno si vedono davvero di rado e si vorrebbero vedere più spesso.

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