Parasite, la recensione

Dal regista sudcoreano Bong Joon-ho, un’esaltante commedia nera sulla lotta di classe, divertente e disperata, Palma d'oro all'ultimo Festival di Cannes

Parasite, la recensione
PANORAMICA
Regia (4.5)
Sceneggiatura (4)
Interpretazioni (4)
Fotografia (3.5)
Montaggio (4)
Colonna sonora (3.5)

Seoul una famiglia vive in un seminterrato, in uno dei quartieri più abbandonati a se stessi della capitale. Deve faticare quotidianamente per sopravvivere, ma uno spiraglio di speranza si fa largo quando il figlio maggiore Ki-woo (Choi Woo-sik) viene assunto da una ragazza, Ki-jung (Park So-dam), erede di una famiglia molto benestante, per darle delle ripetizioni in vista di un esame. Lui cercherà di trarre il massimo del profitto da questa opportunità, ma la situazione sfuggirà di mano.

Parasite, il film del regista sudcoreano Bong Joon-ho che ha vinto la Palma d’Oro all’ultimo Festival di Cannes, ci riconsegna l’autore asiatico al massimo della sua ispirazione. Lo fa con un’opera capace di coniugare come poche altre crudeltà e ilarità, imprevisti pirotecnici e profondità metaforica. Parasite parla evidentemente di lotta di classe: un conflitto che smuove gli istinti bassi e viscerali di due famiglie, catapultate di punto in bianco in uno scontro senza esclusione di colpi e all’ultimo sangue.

La messa in scena di Bong asseconda questa spaccatura nel migliore dei modi: dialoghi raffinatissimi e un costante sottofondo di amarezza che non rinuncia al divertimento, allo sberleffo e soprattutto alla satira, ieri come oggi il genere più politico che esista. Parasite è, di fatto, un film a cavallo tra gli umori più disparati: il thriller e la commedia, la farsa e lo slapstick, con in più delle incursioni violente che sanno come trasportare la storia, sul piano grafico, verso un incubo tanto impietoso quanto radicale, con uno stile simile al recente Noi di Jordan Peele.

Bong Joon-ho, dopotutto, è un cineasta abituato a spaziare tra toni di racconto molto diversi, dal disaster movie commerciale The Host al dramma poliziesco Memories of Murder (che in comune con Parasite ha uno sguardo in camera finale impossibile da dimenticare), dal ritratto femminile tragico e straziante di Madre alla fantascienza di Snowpiercer, che parlava anch’esso di una piramide sociale non più rovesciabile.

Quest’ultimo lavoro è per lui il film della maturità, l’operazione in cui le tensioni e le spinte della sua arte si amalgamano e si fondono secondo traiettorie limpide ed equilibrate. A dispetto – ed è forse questo l’aspetto più stupefacente – dell’altissimo tasso di follia (e diciamo pure di demenza) della narrazione, in linea con un approccio a dir poco funambolico agli spunti che ci vengono proposti dalle immagini.

Dalla crisi economica alla bizzarria di un umorismo imprevedibile, balsamo e urlo di libertà che riecheggia di continuo senza mai far saltare il banco, passando per gli Stati Uniti d’America come veicolo di menzogne e oggetti artefatti e per una Corea del Sud invischiata in dei rapporti ancora complicati e scivolosi con quella del Nord, lontani da un’auspicabile risoluzione nonostante l’annunciato disgelo.

Quella di Parasite è una vicenda che non si siede mai sulle sue folgoranti intuizioni, rilanciando costantemente le proprie sfide, a cavallo tra i generi, le appartenenze di classe, il saliscendi dei registri. E attraverso mille e più scale, gli spazi e gli ambienti, i traumi e le terapie, lo sconcerto grottesco e la paresi di certe risate non sempre motivate, l’odore della povertà e l’ingenuità della ricchezza.

Ma se il denaro è un ferro da stiro, quello di Bong è un ammaliante tritacarne in cui il duello campale convocato è una questione di condizioni e simulazioni. Fino a che punto si è disposti a fare gli indiani, a inciampare nel rimosso e nelle viscere delle colpe e della società, a stringere a sé i massi più ingombranti?

Parasite intavola il cinema più serio e impegnato possibile, per stratificazioni e livelli di lettura, eppure sembra farlo sempre col sorriso sulle labbra. Si permette perfino, nella sequenza in assoluto più esaltante, di usare a meraviglia un classico della nostra musica leggera come In ginocchio da te di Gianni Morandi, brano clamorosamente inserito all’apice di una guerra tra poveri che mette i brividi.

Al cospetto della quale Bong Joon-ho non nasconde mai nemmeno pur un momento, sotto la superficie intelligente ma delirante, il rumore sarcastico e malevolo di una risata beffarda che non risparmia niente e nessuno. Pronta, se volesse, a inghiottire tutto e tutti, e a fare dell’apocalisse il più inutile degli approdi.

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