Don’t Worry

La storia di John Callahan, leggendario vignettista di Portland dall'umorismo politicamente scorrettissimo. Un film dai grandi interpreti, da Joaquin Phoenix a Jonah Hill, diretto con sensibilità e magnifico sense of humor da Gus Van Sant

Joaquin Phoenix e Jonah Hill in Don't Worry di Gus Van Sant
PANORAMICA
Regia (4)
Interpretazioni (4.5)
Sceneggiatura (3)
Fotografia (3)
Montaggio (4)
Colonna sonora (3.5)

Ormai parlare di cinema indipendente americano è diventato un campo minato, c’è sempre nell’aria una specie di diffidenza o slancio parodico, come se i codici produttivi e narrativi – una certa idea di provincia, soprattutto, in bilico tra farsa e malinconia – fossero diventati lo strumento di una caricatura, destinata ad essere esposta al Sundance in gennaio.

È il rischio di ogni linguaggio che venga sistematizzato dall’industria a scopo di vendita, e fa senz’altro sorridere che oggi sullo stesso scaffale siano affiancati gli esperimenti da 500mila dollari dei Duplass Bros e i quasi-kolossal della Fox Searchlight, come La forma dell’acqua (se di recente avete letto o sentito che “oggi come oggi agli Oscar arrivano solo film indipendenti”, e non avete capito di che si parlava, beh, quello è esattamente il problema).
Don’t Worry testimonia però le potenzialità ancora intatte dei suoi luoghi (comuni) e dei suoi tempi, in particolare il lembo nord della west coast negli anni ’70 e ’80, con il suo indotto di colletti extralarge, pettinature ambiziose e cose più sostanziose come le battaglie progressiste per la libertà di parola e rappresentazione, di sé e degli altri.

In teoria, è un biopic: cioè si racconta la vita di John Callahan, leggendario “cartoonista” di Portland che nell’arco di tre decenni – tra gli anni ’80 e il nuovo millennio – ha riscritto a suon di vignette le regole del politicamente scorretto, con il beneficio e – diciamo – la garanzia d’impunità che gli garantiva il suo status di quad, abbreviazione americana per tetraplegico. Dalla sua carrozzina, tenendo la matita bloccata tra le mani inefficienti e segnando i fogli con il tratto irregolare che lo renderà celebre, Callahan prende sistematicamente di mira i tabù della società americana scatenando le proteste di pressoché qualunque categoria sociale, dai nani alle casalinghe conservatrici.

Il film ha un andamento a spirale che è un piccolo prodigio di montaggio. Al centro di tutto c’è l’incidente automobilistico che cambia vita e prospettive al protagonista quando ha poco più di vent’anni e non passa due ore senza prendere in mano una bottiglia di tequila. Il prima e il dopo sono schegge di un’esistenza frenetica e paradossalmente ricchissima che ha un’unico punto d’appoggio: il percorso con gli alcolisti anonimi che libera Callahan dalla sua dipendenza e gli da la lucidità per capire il proprio talento e scegliere la sua professione.

Don’t Worry dimostra alcune cose. La prima: se Joaquin Phoenix è un grande attore non sottovalutato, Jonah Hill è un grandissimo attore sottovalutato.
La seconda: non ci sono molti autori al mondo in grado di fare cinema sentimentale come Gus Van Sant; due scene sono da antologia: il primo incontro del protagonista, paralizzato e legato al letto, con quella che diventerà la donna della sua vita (Rooney Mara); l’ultimo incontro con l’uomo che guidava l’auto la notte dell’incidente (Jack Black), molti anni dopo.
La terza: è evidentemente possibile scrivere e dirigere un film esemplare di cadute e riscatti senza essere per nulla pedanti e retorici.

Nota a margine: il film avrebbe dovuto essere interpretato da Robin Williams, che di Callahan era concittadino e aveva comprato i diritti della sua autobiografia. Li affidò a Van Sant prima che lavorassero assieme a Will Hunting, ma nessuno volle produrre il film perché l’attore di L’attimo fuggente era reduce da alcuni flop.
Era il 1989. Oggi sono morti sia Callahan e Williams, ma il film infine esiste.

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