Ride

L'esordio alla regia di Valerio Mastandrea, con protagonista la compagna dell'attore, Chiara Martegiani

Ride, di Valerio Mastandrea: la recensione
PANORAMICA
Regia (2.5)
Sceneggiatura (3)
Interpretazioni (3)
Montaggio (2.5)
Fotografia (2.5)

Mauro Secondari, un giovane operaio, è morto nella fabbrica di una piccola comunità marittima, Nettuno, sul litorale romano. La sua compagna, Carolina (Chiara Martegiani) è rimasta sola, con un figlio di dieci anni a carico e alle prese con una disperazione silenziosa, con un senso di perdita da metabolizzare di punto in bianco. Nonostante lo vorrebbe con tutte le sue forze, però, non riesce a piangere.

Ride, l’esordio alla regia di Valerio Mastandrea in concorso al 36° Torino Film Festival, è un prodotto alieno e sorprendente, da molti punti di vista: una parabola sul lutto che parte da una morte bianca, ovvero una tragica dipartita sul lavoro, per sviluppare uno studio di donna dai tratti sofferti ma anche soavi. Siamo al cospetto di un film piccolo e doloroso, intimo e raccolto, eppure al suo interno c’è molto del brio del Mastandrea attore e personaggio, della sua ironia obliqua e fuori posto.

Nell’affrontare la vicenda di Carolina, vedova da una settimana e inchiodata a un’angoscia che non sa come ridimensionare ma nemmeno come chiamare per nome, Mastandrea crea infatti un meccanismo di attesa pieno di sconforto ma anche di brecce inaspettate, soffermandosi su ciò che precede un funerale e su una galleria corale di personaggi e punti di vista alternati.

È un rito di preparazione, quello messo in scena, ma i toni cupi dell’avvicinamento all’ultimo saluto non negano la poesia e l’assenza di lacrime – inspiegabile, irrisolta – presta il fianco a un gioco di contrasti tra la stramberia e la sofferenza. In quest’ultima contrapposizione sta quasi tutta la vitalità di Ride, che è un’opera prima coraggiosa e come tale vogliosa di azzardare, anche abbracciando il rischio di andare fuori fuoco e di sbagliare registro.

Difetti che a un’opera prima sono spesso imputabili, specie quando la scrittura, come in questo caso, richiede un’amalgama a dir poco sfaccettata e accorta per entrare in profondità, scavare sottopelle, colpire nel segno. Ride evita invece, e lo fa con personalità e sicurezza, la strada dell’equilibrio e della compostezza, non s’incasella nei dettami del consueto cinema del dolore. Preferisce sfuggire alla norma, svicolare, sedurre, spiazzare.

La prima ora, che fornisce anche una prospettiva infantile e allo stesso tempo senile sulla storia, è costruita quasi come una sequenza di sketch lunari tenuti insieme da un dolente filo conduttore e ciò contribuisce a fare di Ride un esperimento difficilmente etichettabile e catalogabile: un’esperienza di visione come di rado se ne trovano, per tempi e per contrappunti, nel cinema italiano di oggi.

Il finale invece sale innegabilmente di tono, si cimenta con dei tocchi surreali (la sequenza della pioggia in camera, ad esempio), non cerca di bagnare gli occhi dello spettatore con soluzioni a buon mercato né di spingere verso il lacrimoso la percezione di chi guarda. Mantiene una distanza, un pudore, un senso di impotenza che è proprio della protagonista e della sua interprete ma anche dell’occhio del regista, che dell’attrice principale è partner anche nella vita.

Nella stessa direzione, infine, va anche la musica, che è parecchia e adoperata con una certa, scomposta generosità: non un semplice accompagnamento, ma la cifra espressiva più adatta per restituire, in maniera travolgente e caotica, il rumore sordo del mondo esterno, per sopprimere a forza gli echi di un dispiacere irraccontabile.

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