Riparare i viventi

L’alba, il mare in agitazione, tre giovani surfisti pronti a domare le onde. Una gioventù baciata dalla purezza e dalla grazia, illuminata da un prologo potente, carico di evocazioni sonore e visive, di spunti fascinosi. Inizia così, Riparare i viventi, opera terza della regista francese Katell Quillévéré, con un bombardamento di sensazioni da riversare sullo spettatore, ispirate da una generosità di impulsi non indifferente e non comune. Un incanto che lascia presto il posto allo spezzarsi del sogno e al sopraggiungere dell’incubo, con un incidente stradale che irrompe sulla scena e delle vite che vanno in frantumi: il giovane Simon è ormai in condizioni critiche e una donna, da qualche altra parte, è in attesa di un trapianto di cuore…

Presentato nella sezione Orizzonti della scorsa edizione della Mostra del cinema di Venezia e passato anche al Toronto Film Festival, Riparare i viventi conferma il talento di questa giovane regista transalpina di origini ivoriane, già messasi in luce col precedente Suzanne. Rispetto a quel caso le procedure narrative qui appaiono letteralmente invertite: non più pochi personaggi nell’arco di molti anni ma esattamente il contrario, ovvero tanti soggetti uniti da una tragica fatalità che interseca le loro vite nell’arco di ventiquattr’ore, devastandone le esistenze e le certezze, il quotidiano e il futuro.

Il film della Quillévéré, adattamento di un romanzo noto e di successo di Maylis de Kerangal, è smaliziato e consapevole dei propri mezzi, a tal punto da rasentare in più di un’occasione l’arroganza e il compiacimento, stilistico ed espressivo, nelle scelte musicali e in quelle di regia. Ma è una spavalderia che genera un contrappunto singolare e originale e un contrasto che non manca mai di stupire, specie in un dramma in teoria così misurato e pieno di ellissi taciute, strazianti non detti, colpi al cuore sibillini, oltre che incentrato sull’evanescenza del corpo e del destino di ognuno di noi. La scena iniziale dell’asfalto che muta in digitale per lasciare il posto al mare in tempesta è un perfetto compendio dello spessore visivo della regista, in grado di spazzare via anche le incertezze narrative attraverso il suo potente apparato di suoni e visioni. 

Quando accarezza i suoi personaggi con tatto e con misura, Riparare i viventi è un film chirurgico nel vero senso della parola: attento, scrupoloso, discreto, estremamente lucido nell’aggrapparsi al fragile e precario equilibrio dei suoi personaggi, alle loro attese sospese e all’illuminarsi o allo scolorirsi delle loro vite, a seconda dei casi e della sorte. Un film dall’enorme valore sociale, nel senso più alto e luminoso del termine, perché sinceramente interessato agli uomini e alle donne che lo abitano, alle loro origini e al futuro che si staglia loro davanti, incerto e ancora da scrivere: un baratro meraviglioso, che accomuna tutti e a prescindere, indipendentemente dal tempo ancora concesso a ciascuno di noi. «We had five years left to cry in», canta David Bowie nella sua incredibile Five Years, che per niente a caso chiude il film accompagnandone i titoli di coda.

Mi piace: il talento visivo della regista e le sequenze di notevole impatto che il film offre.

Non mi piace: il compiacimento stilistico che spesso fa capolino e l’andamento narrativo qua e là incerto.

Consigliato: a chi cerca un dramma potente ma anche delicato e introspettivo, pieno di storie a incastro, sul modello di Babel di Alejandro González Iñárritu.

Voto: 3/5

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